L'autunno nel Vulture di Armando Lostaglio
Rionero in Vulture - Si aggirano visitatori in una fredda
domenica d'autunno, nel Vulture; non sempre rispettano quanto intorno questa
natura sa offrire. Eppure è tanta la curiosità, lo stupore, e talvolta
l'abbandono, in questa terra dai mille colori e profumi. E poi un percorso
attraverso i meandri di una cantina che conserva il fascino di un tempo. Si è
come sospinti dall'odore dei tini e dal vento che accarezza gli oliveti: siamo
alle pendici del Vulture, fra Rapolla e Barile, fino a toccare Rionero e vedere
più in là Ripacandida e Ginestra. Lo scenario è allettante, è come "scivolare
fra valli fiorite / dove all'ulivo si abbraccia la vite", cantava Fabrizio De
André.
Succede così di passare per i quartieri e riassaporare ancora
gli antichi profumi che esalano dai tini, di innumerevoli cantine. La vendemmia si consuma come una liturgia, l'odore che viene da
tinozze e barili è come quello dell'incenso che perdura stantio e secolare,
nelle chiese. Odori di un tempo che la vendemmia ripropone in un territorio di
arcaica vocazione contadina, il Vulture, terra doc di aglianico, di olio e di
acque minerali. La terra e le sue linfe.
Un rito antico che qui affonda nelle radici profonde del
vulcano estinto, dentro il vissuto di generazioni intere, secoli di buon vino e
di allegrie nei quartieri di pietra che pure
mascheravano latenti povertà. E' nei mesi degli ultimi frutti e raccolti che il Vulture vive
la sua festa più tenace. Dall'alto della cima, dai sette dorsali che appaiono
come un avvoltoio (per i latini vultur appunto), l'occhio osserva quegli uomini
mesti e lieti che come formiche perpetuano la disciplina della terra, tra
filiere di viti in distese scoscese, e fra gli ulivi contorti.
Da Melfi a Rapolla a Ripacandida, e da Ginestra l'occhio arriva
fino a Venosa e più a est fino a Maschito; e poi di rimando ai piedi della
montagna, a Rionero, con la sua "prima zona", quella di San Savino.
"Qui, quando è buona annata, si miete anche tra i sassi." -
Scriveva in un suo racconto lo scrittore rionerese Vincenzo Buccino - "Questa
volta l'annata è buona, e che buona? E'
grassa, esuberante. L'uva è mostosa, più turgida della pingue terra di San
Savino. Il mosto è più viscoso dell'olio delle olive della Fiumara e delle
Querce".
Chissà quanti ricorderanno quel personaggio popolare scomparso
tempo fa, cultore e cantore del vino: Michele, che per tutti era "Pastina", il suo
inconfondibile nome. Bevitore e conoscitore di vino cui bastavano pochi
bicchieri per riuscire a declamare versi di autorevoli poeti, lui che era un
ortolano con poca scuola. Da Pascoli a De Amicis, fino a Dante e Boccaccio.
Nelle feste indossava al collo lo "scullino", così chiamato il papillon dei
poveri. Riusciva ad allietare con rime estemporanee la festa della vendemmia,
la dottrina degli ultimi raccolti dell'anno. Un cantore, un oracolo buono,
questo era "Pastina", sacerdote della
vendemmia. E profeta di cantine, quella di Rocc' Falò e di Zazzarino, tempio di
calore etilico.
Oggi c'è poco spazio per le "feste bacchiche" di un tempo,
quando l'uva si pigiava coi piedi, che solo quando diventavano rossi si poteva
smettere. Ce lo racconta zio Francesco a Monticchio, che ricorda penetrante e
inebriante l'odore di mosto. Quell'aspro odore che riavvicina nei secoli il
culto dei Satiri che si incoronavano di
pampini e ballavano fra filari di viti.
Appena dopo la vendemmia la raccolta delle olive sugli alberi
contorti, dai rami con le "frustate acide" quando sono prese negli occhi. I
frantoi, i "trappeti", si affollano di contadini infreddoliti di ritorno dalla
terra, con i loro sacchi gonfi di frutto, l'ultimo raccolto dell'anno, prima
del lungo letargo.
Il colore delle castagne sa di autunno, come il suono sordo
delle noci schiacciate nel palmo della mano. Colori, sapori e musica senza tempo, sudore e fatica: questo è
l'autunno, meglio celebrato da cantori e poeti: "Stagione di nebbie e
morbida abbondanza, Tu, intima amica del sole al suo culmine / Che con lui
cospiri per far grevi d'uva / Le viti appese alle gronde di paglia dei
tetti..." elogiava il romantico inglese
John Keats.
"Quando morirò, ve ne prego, collegate con un lunga canna il
vigneto sopra il cimitero con la terra dove andrò a riposare, perché possa
anche lassù godere del frutto pregiato, di 'aglianico e di moscato..." anelava
così prima dell'ultimo respiro Michele Pastina, uomo di altri tempi, immersi
nella magia dei profumi che solo
l'autunno sa esaltare. E che i viaggiatori nel Vulture sappiano condividere: "Lo vedete il Vulture, ammantato
di rosso-marrone?
Si contempla soltanto se si è - con Whitman - "sensibili alle
foglie".
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