Chiude il Bar Nuzzi, un altro segno dei tempi e della crisi
All'ora di pranzo di oggi, sabato 31 dicembre, il Bar Nuzzi
(in via Roma 256) ha chiuso i battenti. Giambattista Nuzzi, "Titto" per tutti, classe 1950 e con quarantadue anni di
versamenti contributivi , è andato in pensione. In verità lo era già da qualche
mese, ma aveva prorogato la decisione sperando che almeno uno dei suoi tre
figli gli succedesse, come era nelle intenzioni sue e della moglie Grazia Anna Maria Gialdino (sposata il 4 dicembrre 1976).
Invece, Caterina è felicemente
sposata e vive a Pomezia, vicino a Roma, Salvatore fa il muratore a Reggio Emilia
e Francesco è rimasto si nel settore della ristorazione, ma a Limone sul Garda,
in provincia di Brescia. "C'è una ripresa dell'emigrazione e Tursi è in
decadenza, non offre più stimoli a restare, per fare cosa?" - ci dice il neo
pensionato - Sono sereno, dopo decenni di lavoro, comunque duro, che richiede
sacrifici, perché fatto in proprio e a contatto quotidiano con la gente".
La parte nord della centralissima e lunga strada che separa il magnifico centro storico dall'orribile
parte nuova del paese, non sarà più la stessa, d'ora in poi. L'esercizio era
stato aperto nel 1955 nella Rabatana, allora molto popolata, e fu tra i primi
del dopoguerra, nella fase della ricostruzione sociale, civile e morale dell'Italia.
Oggi era l'unico bar della continuità
familiare e generazionale, sopravvissuto alla originaria gestione della madre Caterina
Mastrangelo, intestataria (il padre Salvatore era cantoniere). I sentimenti
contrastanti legati alle esperienze di un piccolo ritrovo, sono stati ben
descritti, come sempre con delicatezza e sensibilità, dal grande Pupi Avati nel
film "Gli amici del Bar Margherita" (2009), d'ambientazione bolognese, ma ci si riconosce anche nel
profondo Sud, e chi lo ha visto potrà in certo modo riscoprire cosa abbia
significato anche il "Bar Nuzzi" o "da Titto", pure in un piccolo centro della
Basilicata.
Con lo sviluppo urbanistico collocato sempre più in basso,
tra topografia e metafora, e abbandonato
l'antico borgo, la prima collocazione del bar fu in Via Olanda, dove restò dal
1965 al 1971, quando anche ufficialmente iniziò a occuparsene Giambattista e la sede, la più grande per
struttura, si stabilizzò definitivamente nell'attuale collocazione, al piano
stradale della costruzione di proprietà della famiglia. Dagli anni "formidabili" della contestazione
studentesca a quelli da "bere" degli effimeri-opulenti Ottanta, agli altri di
"mani pulite" dei declinanti anni Novanta, fino a tempi recenti della crisi del
berlusconismo, tutti sono racchiusi negli arredi e nella tipologia dei consumi,
come negli stessi frequentatori di un bar tursitano che ha fatto epoca dal
febbraio 1971 in poi, tranne un appannamento dell'ultimo periodo.
Era suo il "migliore"
caffè, proposto con il corredo vociare del barman, genuinamente incontenibile e popolare. I cinquantenni, e non soltanto loro
ovviamente, hanno ancora viva la memoria del calcio balilla e i tornei, il
record dei flipper o il biliardo per carambole e goriziane, oppure il juke-box
con i 45 giri di vinile, ma anche la gazzosa e la spuma, i primi superalcolici
e l'amaro Lucano, oltre al tifo
domenicale, lui Juventino sfegatato, intorno alla radio di "Tutto il calcio
minuto per minuto" e di fronte alla televisione di "Novantesimo minuto". Tutto
è inscritto nell'aria fumosa delle
partite a scopa, briscola o tresette, e poi nelle attese per la cabina
telefonica, prima con i gettoni e poi "a scatti", oppure nel nascondiglio di giornate non scolastiche,
con le prime avventrici femminili, come nelle lotte politiche e nelle
cene dopo la chiusura notturna.
Il bar segnava non solo simbolicamente la fine dell'abitato.
Oltre c'era la pineta, verso l'ex convento di San Rocco, luogo simbolo di
libertà e scappatelle, di aria salubre e serpenti, intorno al laghetto del
torrente Pescogrosso, la cui vena di scorrimento ormai si è persa. Ma quando il
rione Piana/Europa si popolò a dismisura, la torre maggiore del residuo
castello fu abbattuta e la fontana laterale spostata al bivio della strada
provinciale per Colobraro, già da allora fu chiaro a tutti che niente sarebbe
sopravvissuto al furore modernista di amministratori tutt'altro che
lungimiranti.
Moto e auto di varia potenza e lucentezza, parcheggiate alla
meglio, rendevano più di cavillose analisi sociologiche e di controlli fiscali,
quasi inesistenti, l'idea interclassista del cambiamento in atto e della ricchezza sia dei dipendenti
dell'Anic di Pisticci, a tutto danno delle arti e dei mestieri locali, sia degli
agricoltori tursitani, con le loro piantagioni di colture intensive (arance
certo, ma anche pesche, kiwi, albicocche), lavorate da trattori e smerciate da treruote
e camioncini. Il bar Nuzzi (r)accoglieva tutta quella varia umanità, palesata
in umori, istanze, urla, sfoghi, liti, riappacificazioni, sorrisi e abbracci,
speranze, fughe e molto altro. Di questo adesso rimane, se pure, uno sguardo fugace dalle auto in transito,
una volta rallentato, poi con il tempo, molto presto, si perderà la memoria,
perché il futuro ci impone di
dimenticare e di rigare dritti, verso
altri bar, nuovi, accoglienti e selettivi, ma (ancora) senza storia.
Salvatore Verde
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