A proposito
del libro di Tonino Di Noia sul calcio tursitano di Salvatore Verde
Il periodo del secondo dopoguerra è caratterizzato
dalla ricostruzione anche morale della nazione, con la società italiana che vive
profondissime trasformazioni. Inoltre, dalla metà degli anni Cinquanta, fatto
di rilevanza straordinaria, si va
consolidando la diffusione della televisione.
Erano anche gli anni di robusta
emigrazione nel triangolo industriale del settentrione italiano, a Milano,
Torino e Genova. E proprio dal capoluogo ligure arriveranno i calciatori che,
nati nell'amato paese oppure di origini, più di altri hanno sviluppato la
carriera a livello professionistico. Mi riferisco agli atleti della famiglia
Spinelli, i quali meriterebbero una trattazione specifica delle loro vicende
calcistiche, davvero intriganti e con compagni di viaggio che hanno fatto e
stanno ancora facendo la storia del calcio italiano.
Il padre Franco Spinelli (classe 1952, nato
nella Rabatana di Tursi), attaccante con il numero 10, era nel settore
giovanile della Sampdoria dall'età di 11 anni fino ai 20 circa, arrivò poi in
prima squadra, ne condivise il ritiro
(ai tempi di Luisito Suarez,
1970-73), giocò qualche partita amichevole e realizzò alcune reti;
successivamente, fino ai 26 anni, ha giocato nei campionati di C1 con la Salernitana,
l'Anconetana, il Civitavecchia e l'Orvietana, prima di essere assunto in banca
e passare ai livelli interregionali, nei quali è rimasto davvero a lungo.
Stessa passione trasmessa con esiti maggiori ai due figli maschi, entrambi nati
nella Città della Lanterna.
Gabriele
Spinelli (1976), difensore, ha frequentato la scuola calcio e il settore
giovanile del Genoa, poi nella prima squadra in serie B, nelle stagioni 1995-96
e 1996-97; in C1: due anni ad Arezzo, un anno con il Montevarchi e uno a
Teramo; nella C2: a Trento e nel Rondinella-Firenze; quindi nelle formazioni di
serie D. Quasi in parallelo la vita calcistica del fratello Simone Spinelli (1978), centravanti,
cresciuto anch'egli nel Genoa, giocando in serie B un paio di partite nei
campionati del 1995-96 e 1996-97; sostituì l'indisponibile Vincenzo Montella e debuttò, segnando clamorosamente; in seguito ha
indossato la maglia della Cremonese, allenata da Giampiero Marini, e dell'Arezzo, del presidente Francesco Graziani, entrambe le quadre
erano in C1; in seguito all'Imperia in C2, seguito da una lunga lista di
società della serie D. I due calciatori si dedicano adesso alla formazione,
nella scuola calcio per i "pulcini".
Dal quotidiano on line "ilMetapontino.it", del 9
novembre 2011, a
firma di Leandro Domenico Verde,
riporto questa notevole curiosità: "I
fratelli Spinelli nella loro carriera sono stati allenati in serie C1 da Serse Cosmi
nell'Arezzo, stagione 1998-99, e proprio dopo una lite con il mister umbro,
citata da questi anche nel libro autobiografico ‘L'uomo sul fiume', lasciarono
la squadra. Forse non tutti, però, ricorderanno lo strano caso che vide
protagonista il giovanissimo Simone.
Nella stagione 1995-96, nell'ultima
partita di campionato tra Genoa e Fidelis Andria, entrò in campo nel secondo
tempo e segnò, a pochi minuti dalla fine, il goal che mandò in serie C i
pugliesi, ai quali sarebbe bastato il pareggio per disputare i playout con il
Brescia. Di solito un goal, a quell'età ti cambia la vita, e in questo caso è stato
lo stesso, ma in negativo. Perché dopo quell'occasione il giovane non ebbe più
la fortuna di calcare i campi di serie A e nemmeno quelli di B, ma fu relegato
ai campionati minori, dove però ha realizzato oltre 100 goal".
Nella realtà
paesana, invece, si sono affacciati nella C2 solo Giuseppe Policarpo (1971) con il Potenza, nella stagione 1989-90, e
Adamo Digno (1980), più di recente
nella Pro Vasto (2009-10), entrambi
passati poi in altre squadre della serie D.
È un caso a sé, ma del periodo precedente, la storia
incredibile da poco venuta alla luce del calciatore, poi medico, Luigi Nicola Nobile, nato a Tursi il 24
febbraio 1921 ("a ore pomeridiane" in via Garibaldi 61, testimoni dell'atto di
nascita Vincenzo Cristiano e Domenico Santamaria) e morto ad Aosta
il 18 febbraio 2009, a 88 anni. Nobile era figlio di Francesco, possidente, e di
Carmela Nicoletta De Pietro, gentildonna.
Cresciuto nel vivaio della Roma,
nella stagione 1939-40 approdò come difensore in prima squadra, senza mai
giocare; nel campionato successivo debutta in Serie A, il 22 dicembre 1940 in
Napoli - Roma (finale 2-1), totalizzando tre presenze nel ruolo di terzino
sinistro (era alto cm 175); nel 1941-42, una sola apparizione, in casa contro
il Torino, ma è nella storia del calcio italiano poiché la Roma conquista lo
scudetto (quarantaduesima edizione, tredicesima a girone unico). L'anno dopo,
con la sospensione dei campionati a causa della guerra, lascia
definitivamente l'attività agonistica ma
prosegue gli studi, fino alla laurea in Medicina e Chirurgia.
Sono nato nel 1955 e ricordo che, assieme al salto in
lungo e al pugilato, il calcio chiudeva la terna dei miei sport preferiti. Ma
non avevo il fisico per nessuna loro pratica, neppure dilettantistica. Troppo
piccolo e minuto per tale avventura. Il tentativo di giocare al calcio con la
palla e poi con il pallone, invece, fu fatto. Ricordo almeno un paio di partite
in Prima (o Seconda) categoria. Ancora nei primi anni Sessanta, ogni spiazzo,
piazzetta, slargo, piazzale, spazio aperto era utilizzato allo scopo. Con il
gesso o la calce bianca, delimitavamo la praticabilità della geometria
variabile e oltremodo irregolare, che solo la fantasia di bambini era in grado
di considerare e vedere come un campo perfettamente rettangolare.
Né possono
mancare, in questa mini rievocazione, le sfide tra i ragazzi dei vari rioni, le
partitelle interminabili fino a sera, gli schiamazzi diurni, gli ammonimenti
degli anziani e i palloni di plastica bucati dagli abitanti, anche amici, con
forbici, coltelli e ferri da maglia, non raramente veniva usato l'uncinetto.
Poi l'approdo nel campo sportivo di Santiquaranta, che significava anche
sperimentare i tentativi di allontanamento dalla propria casa e dal quartiere
di appartenenza, cosa che non di rado era assimilata a una prova di crescita e maturità, che
scaturiva dal contatto con l'estraneo, seppure coetaneo, desideroso lui di
saggiare la nostra reattività emotiva e comportamentale, tramite provocazioni e
aggressività non soltanto verbale, come capita ogni dove si presenti l'embrione
del bullismo.
La strada e il vicinato, dunque, erano la vera scuola,
la maestra di vita, come usa dire. Nel calcio giocato, volendo proseguire con
le reminiscenze, i ragazzi sovente lamentavano la mancata conoscenza delle regole,
date per scontate e mai spiegate con metodo, mentre le squadre rispecchiavano
l'impostazione difensiva, con lo stopper e il libero e la marcatura a uomo. Che
si trattasse di uno sport di gruppo, non tutti lo ricordavano sempre. Taluni,
non di rado e non i peggiori, erano capaci di azioni personali funamboliche,
testarde, eccessive e disturbanti, una pura follia da individualismo,
sottolineate da urla dei compagni da far impallidire Tarzan.
Tutto era in fase
di costruzione, parlare di cultura calcistica, di strutture adeguate, di
organizzazione societaria, di vivaio locale o di altro sarebbe assolutamente
fuori luogo e sbagliato. Ai gruppi più spontanei e omogenei, succederanno le
formazioni più eterogenee per età. La scolarizzazione di massa divenne presto
delizia e croce per il calcio. Gli alunni delle Scuole Secondarie di Secondo
Grado fornivano indubbiamente un apporto significativo di presenze nelle fila
dei titolari, alcuni hanno avuto anche la possibilità di andare a giocare in
squadre dei comuni viciniori o della provincia oppure nelle varie
rappresentative regionali. Tale disponibilità diventava oltremodo improbabile
in caso di frequenza all'Università fuori regione.
Da qui i (sempre meno) rari
"acquisti" di calciatori esterni, fino all'attuale situazione di una rosa
calcistica composta quasi per intero da giocatori non locali, di fatto sostenuti dal mecenatismo calcistico
di piccoli artigiani e imprenditori appassionati e visionari.
Una carrellata di fatti incresciosi spesso in ogni
gara, quasi sempre con liti furibonde e scontri fisici tra calciatori e tra
opposte tifoserie, danno il segno di una mal repressa e aggressiva furbizia
pre-sportiva, di una valvola di sfogo inaccettabile, di una tendenza
caratteriale a considerare l'avversario come un estraneo, un nemico da
(ab)battere, ma anche di una rivolta interiore contro l'istituzione calcistica,
avendo i giocatori e i tifosi una mentalità ancora disabituata al rispetto
delle regole e agli immortali valori di lealtà, rispetto e onestà sportiva.
Con
coraggio, garbo e apprezzabile (auto)critica, Tonino Di Noia, tra gli intensi
ricordi e le tante note a piè di pagina, segnala innumerevoli casi di forzata
commistione del calcio con altri sport, si fa per dire, soprattutto con il
pugilato (i pugni), l'atletica (la fuga) e la lotta greco-romana (le
strattonate a terra), fino alle arti marziali (il kinboxing era quello
preferito già allora, per la tecnica mista di mani e piedi). In alcune
circostanze, le scene appaiono da fumetto o da cinema tragicomico, con
ascendenze nello splatter, tanto erano dolorosi i segni lasciati all'arbitro e
agli stessi calciatori in campo, per le ferite aperte e sangue in evidenza,
senza nessuna umana pietà, seguiti da strumentali lamentazioni e vuoti
piagnistei. Al confronto fanno quasi sorridere le sostituzioni di persone, i
falli di gioco (o piede o palla!), le inevitabili squalifiche brevi e lunghe e
le multe salat(in)e.
Se possibile, le cose andavano anche peggio fuori dal
recinto, tra i tifosi, con risse e scene da guerriglia paesana. In generale,
sarebbe vano ricercare un differenziazione tra nord e sud della penisola, tra
centro e periferia, tra status sociale dei più facinorosi. L'approccio universale
di Pierre De Coubertin rappresentava
un obbiettivo, non certo una situazione di partenza o un patrimonio etico di
tutti. I processi culturali e la stessa civilizzazione richiedono, com'è noto,
tempi medio lunghi. Non che tali accadimenti fossero totalizzanti, ma "precoci"
si, perché a livello nazionale è a partire dagli anni Settanta che si ha
l'esplosione delle bande organizzate, specialmente a livello di giovani, di
gruppi in cerca di visibilità, spesso politicamente ideologizzati.
Neppure
mancano situazioni smaccatamente comiche o ai limiti del ridicolo, sul terreno
di gioco e all'esterno, mentre si assiste al nascere del folclore calcistico,
sia durante la partita che nel calcio narrato, nei commenti da bar e per
l'intera settimana. Tutti discettano di tecnica, giocatori, schemi, stili e
tattiche, d'altronde è una sacrosanta verità che lo sport preferito dagli
italiani sia quello di soccorrere i vincitori, subito seguito dal reputarsi
allenatori della nazionale di calcio, appunto, figuriamoci per le squadre dei
piccoli centri.
D'altronde, la moviola non è neppure all'orizzonte; la
televisione italiana muove i suoi primi passi in bianco e nero e lancia "La Domenica Sportiva";
una moltitudine di aspiranti milionari spera di fare tredici, azzeccando l'1-X-2,
a volte senza neppure giocare la schedina; la radio imperversa ancora e il giornalista Roberto Bortoluzzi, con il programma
"Tutto il calcio minuto per minuto" (dal 1959), tiene incollate le radioline
alle orecchie, destando l'attenzione di coloro che non vanno allo stadio,
perché tutte le squadre giocano solo la domenica pomeriggio in contemporanea.
Oggi, però, il calcio non è più soltanto un gioco o
uno sport collettivo. Se mai ha avuto tale preponderante configurazione, da
tempo l'ha dismessa, per acquisire e ampliare le caratteristiche della
spettacolarizzazione, con i suoi aspetti economici sempre più invadenti,
consistenti e totalizzanti. Parlare di nazionali e campionati del mondo, di club e scudetti e tornei nazionali
e continentali, di squadre, allenatori, giocatori ed evoluzione della tecnica
di gioco, di schemi tattici e allenamenti, regole, arbitri, di calcio mercato,
di attrezzature e impianti, di stadi e sicurezza, di tifo, violenza e tragedie,
insomma, tutto questo e altro ancora, a bene riflettere, ci porterebbe nel
mezzo di un'avventura ben oltre la cronaca dello sport più popolare del
pianeta, ma significherebbe addentrarsi appieno nella storia della nostra
contemporaneità, con le sue tante luci e le non poche ombre.
Pure, occorre considerare il calcio, dalle origini a
oggi, nel suo rapporto mutevole e
duraturo con la società e la politica, anche attraverso le organizzazioni
internazionali, gli aspetti legislativi e la giustizia sportiva, con gli
sponsor e i mezzi di comunicazione di massa, e con la televisione in
particolare, con gli innumerevoli personaggi, gli incidenti, il doping e le
carriere troncate, gli scandali, le truffe, le scommesse.
Senza minimizzare
l'universo mondo giovanile, con gli adattamenti di regolamenti (tempi di gioco,
dimensioni di campo e porte variabili), nelle diverse categorie (di durata
biennale rispetto all'età anagrafica del bambini), suddivise in primi calci,
pulcini, esordienti e quelle considerate già a livello agonistico (nel rispetto
della diversa esigenza dei ragazzi): giovanissimi, allievi, juniores (o
beretti) e primavera.
Ma si potrebbe approfondire la psicologia degli atleti e
delle loro famiglie, delle persone coinvolte a vario titolo e dei tifosi, e
indagare, con gli strumenti della sociologia dello sport, gli innumerevoli
temi, dalla professione del calciatore alla dinamica del gruppo dei praticanti
(il portiere, i difensori, i centrocampisti e gli attaccanti) e dei
tifosi-spettatori nelle varie generazioni, dalla fenomenologia del divismo allo
sport come componente di una ideologia, veicolo di consenso, cultura popolare
(con i suoi luoghi, riti, simboli e linguaggio), e tantissimo altro ancora,
ovviamente.
Il calcio è uno sport che, nell'attuale moderna
concezione, si consolida quando si differenzia in modo definitivo dal rugby,
nella seconda metà dell'Ottocento. Vaghe similitudini (nel gioco con la palla)
sono ravvisabili addirittura dall'XI sec. a.C., in Giappone, in Cina, poi in
Grecia e perfino nell'Odissea di Omero, nel racconto dei viaggi di Ulisse,
sull'isola di Scheria (Corfù), uomini e donne davano spettacolo lanciandosi una
sfera (sorta di pallamano); altre risalgono al tempo dei Latini e della gloria
di Roma; si hanno notizie da Firenze e
Bologna nel 1600, ma prima di tutto in Inghilterra e nella Scozia, nel Medioevo
dal sec. XIII.
Nel mondo anglosassone il
«football» (piede-palla) si palesa in modo diverso dal salutare
divertimento degli altri giochi e passatempi, suscitando già allora una
propensione piuttosto violenta a risse e baruffe
nelle fazioni in lotta, con conseguenti editti e divieti emanati dai
sovrani, ma gli antropologi hanno dimostrato che l'abilità nel gioco della palla era ritenuta
nell'antichità sicuro sintomo dì fertilità.
Superati i limiti tecnici dell'oggetto-pallone (dalla
vescica di animale al caucciù, al cuoio), nel 1848 all'Università
di Cambridge si codificano la misura del campo, la larghezza
delle porte, il numero dei componenti di
ogni squadra (undici, ma non è chiaro il perchè), le norme di marcamento e le
relative punizioni derivanti dalle infrazioni.
Ma l'evoluzione della
regolamentazione è proseguita, tanto che solo nel 1878 un arbitro utilizza il fischietto per
dirigere un incontro, e otto anni dopo si riconosce già il professionismo
sportivo, equiparando i calciatori ad altre categorie di lavoratori; più di
recente, oltre ai fuorigioco, a esempio si è riconosciuto alla vittoria i tre
punti, dal 1994, seguendo l'esempio dell'Inghilterra e di numerosi altri paesi
(la decisione dei due punti risale al 1881, rimanendo inalterato un punto per
il pareggio).
Dalla Gran Bretagna, e i primi ad avvicinarsi sono stati gli
studenti e gli imprenditori, è iniziata la diffusione nel resto d'Europa e poi
nella altre parti del mondo, a Genova si afferma nel 1890. La definitiva
consacrazione del gioco e avviene alle Olimpiadi di Londra, del 1908. Un
cammino relativamente recente, avvaloratosi con la rivoluzione industriale,
fino a segnare la periodizzazione delle nostre vite con lo svolgimento dei vari
Campionati del Mondo. E aumenta il seguito delle praticanti e tifose donne,
anche se mai del tutto ha preso piede il calcio femminile.
Il gioco del calcio, si sa, è lo sport nazionale per
eccellenza non solo in Italia; esso rappresenta con certezza uno straordinario
fenomeno sociale, culturale e di costume nella maggior parte dei paesi del mondo;
si è affermato anche come una realtà economica di enormi proporzioni almeno in
Europa, Sud America e Asia. Unica industria globale, talvolta una partita di
calcio è il programma televisivo più visto, con oltre un miliardo di spettatori
(i Mondiali di calcio influiscono addirittura sull'attività lavorativa: orari
cambiati, assenteismo, ferie e televisioni sui luoghi di lavoro).
Dunque, è lo
sport più diffuso, più praticato, più seguito in televisione e più letto sui
giornali. Gli appassionati sono fedeli come nessun altro consumatore, assidui,
attenti, passionali, semplici da coinvolgere emotivamente. Il pubblico del
calcio è il più trasversale che esista, come il tifo, il cui fenomeno è
mondiale e cambia da paese a paese, ma i tifosi non sono tutti uguali.
Inoltre,
nel legame straordinario fra i fan e la squadra sono implicate le più varie
motivazioni (identità nazionale, territoriale e di campanile, status, amicizia,
proiezione di sé in un modello o in un campione, tradizione familiare, ecc.), o
addirittura, ha teorizzato nel 1981
l'antropologo Desmond Morris, l'appartenenza (violenta) alla "tribù del
calcio", in grado di attivare un rapporto emotivo particolarissimo, paragonata
a una febbre elevata ed epidemica, al "tifo".
Il gradimento del pubblico è stato evidente sin
dall'inizio, in tutte le fasce sociali. Ma le dimensioni attuali del business,
con lo strapotere televisivo (emittenti e sponsor), che pure garantisce la
maggior parte delle entrate complessive dei club, dai primi anni Ottanta in poi, ha spostato il
giro d'affari del calcio mondiale, che in precedenza si basava soprattutto sui
consumi diretti dei suoi numerosissimi appassionati (biglietti e, in minor
misura, scommesse) e sull'apporto diretto dei soci finanziatori, impegnati in
continuità a metter mano al proprio portafoglio a causa dei bilanci spessissimo
in perdita.
Il calcio ha determinato l'affermazione di sponsorizzazioni,
pubblicità, merchandising, televisione commerciale e a pagamento, Internet,
tradotto in un notevole ritorno economico, di miliardi aggiuntivi per i club,
con i ricavi dalla cessione dei diritti televisivi del campionato (e delle
coppe). La convergenza fra TV, Internet e nuovi media intensificherà
ulteriormente il fenomeno.
La TV ha poi ridefinito le gerarchie dei valori di
un club, la ripartizione sempre più squilibrata delle maggiori risorse
televisive tra grandi e piccole società, influenzato la stesura dei calendari
per adeguarsi alle esigenze televisive, cambiando i formati (la Champions
League e l'Europa league), i calendari (gli anticipi e i posticipi, di fatto
dal venerdì al lunedì), gli orari (le partite giocate a mezzogiorno, alle 18,
la sera). Inevitabilmente, però, anche il calcio ha trasformato la televisione,
che non può più farne a meno.
Sartre amava dire che il calcio è una metafora della
vita e il filosofo Alessandro Di Chiara
ragiona sul rapporto che intercorre tra il sacro e profano nel gioco (che si
svolge all'interno di un tempio laico, con le sue regole, i suoi riti e le sue
liturgie; l'archetipo del pallone conteso rappresenta la ricerca della
perfezione).
Quando chiesero a Pier
Paolo Pasolini cosa avrebbe voluto essere, escludendo il cinema e la
letteratura, lui rispose senza esitazione: il calciatore. Non a caso ha affermato: "Il calcio è l'ultima
rappresentazione sacra del nostro tempo. È rito nel fondo, anche se è evasione.
Mentre altre rappresentazioni sacre, persino la messa, sono in declino, il
calcio è l'unica rimastaci. Il calcio è lo spettacolo che ha sostituito il
teatro".
Se è una rarità constatare l'attaccamento alla stessa
maglia da parte dei giocatori, salvo sparute eccezioni, non bisogna dimenticare
che l'amore per il calcio, anche e soprattutto da parte di chi non lo pratica,
è un unicum irripetibile nel corso della esistenza individuale del tifoso:
solitamente la squadra prescelta non la si cambia mai, e questo accade in tutte
le popolazioni del mondo.
Quand'anche i colori locali sono dilettantistici,
secondari, talvolta opachi e senza infamia e senza lode, nessun problema, il tifo
si sposta sulle squadre più blasonate e vincenti di altre regioni, perfino di
altre nazioni. Perché questo accade? Mai domanda appare più semplice e giammai
la risposta fu (e sarà) più complessa e difficile.
Salvatore
Verde
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