Un quadro di Colobraro,
una nobile tursitana e un misterioso ex
voto, di Gianluca Cappucci
Nella chiesa
madre di san Nicola di Colobraro, sopra la cappella della famiglia Di Pizio (De Pizzo) è stato appeso per
secoli un quadro dipinto da Francesco
Curia, artista napoletano figlio del più noto pittore Michele
e attivo nel Mezzogiorno a cavallo tra gli ultimi due decenni del Cinquecento e
i primi anni del secolo successivo. Il quadro, un olio su tela delle dimensioni
di 177 x 117 cm.,
fu pubblicato per la prima volta nel 1981 dalla studiosa Grelle Iusco nel catalogo della mostra Arte in Basilicata.
La tela raffigura nella parte superiore una Madonna
che tiene in braccio Gesù Bambino; nel registro inferiore in primo piano si
erge San Leonardo che stringe nella mano sinistra le catene, suo attributo iconografico di riferimento, con
due personaggi posti frontalmente al santo. Si tratta di un uomo e
di una donna agghindati secondo la moda del tempo: lui di apparente mezza età, vestito
di nero, con un'elegante mantella a coprirgli le spalle, il collo stretto da una
vistosa gorgiera bianca, intento a porgere
al santo con entrambe le mani un piccolo libro aperto; alle sue spalle una
donna, riteniamo la moglie, abbigliata con una veste verde dai risvolti arancioni, impreziosita da un'alta
e rifinita gorgiera; sul capo è fissato un velo bianco ricadente alle sue
spalle, le mani raccolte in atto di preghiera. Gli sguardi devoti di entrambi i
personaggi sono rivolti al santo.
La posizione e gli atteggiamenti di queste
due figure sono inequivocabilmente legate alla loro funzione di committenti
dell'opera, ma a fugare qualsiasi dubbio sul loro ruolo interviene un cartiglio
posto nella parte bassa della tela, in posizione centrale. La scritta in latino
fornisce una serie di informazioni fondamentali sull'opera e sui suoi
committenti: HOC OPUS FIERI FECERUNT NOTARIUS ANGELUS PITIUS DE TERRA
COLOBRARII ET IOANNELLA DE PANE ET DE VINO DE TURSIO EIUS UXOR A BEATE MARIAE
SEMPER VIRGINIS ET S.LEONARDI 1595.// FRANC. CURIA.
In base a
quanto scritto i committenti sono da individuare in entrambi i coniugi (fieri fecerunt); uno, Angelus
Pitius, appartenente ad uno dei gruppi familiari allora più in vista di
Colobraro (i De Pizzo), fu probabilmente
il primo di una serie di notai dello stesso casato, attestati ancora nel XVIII
secolo (Bernardino e Pasquale Di Pizzo); si trattava di una
famiglia di "galantuomini" legata alle cosiddette professioni liberali quale appunto
quella del notaio. Sua moglie Giovannella
apparteneva alla nobile famiglia tursitana dei Panevino, non estranea all'esercizio delle stesse professioni: proprio
nella seconda metà del Cinquecento incontriamo infatti un Paolo Panevino, nominato avvocato dell'Università di Tursi nel processo
intentato contro la Mensa
vescovile per i diritti di pascolo sul
feudo di Anglona il quale, pur di vincere una causa compromessa, non esitò a corrompere i testimoni di entrambe le parti,
salvo poi pentirsi in punto di morte.
Due figure quelle dei coniugi di
Colobraro, certamente altolocate, potenti e in grado di permettersi il pagamento di un quadro come questo,
sicuramente dipinto a Napoli dall'autore, quel FRANC.CURIA citato alla fine del
cartiglio. Si tratterebbe senz'altro di una tela devozionale come tante altre
se sullo sfondo non fosse rappresentata una scena che suscita una serie di
interrogativi. Alle spalle del santo e dei committenti è infatti dipinto un
paesaggio avvolto da una luce calda, quasi innaturale. Sulla destra un edificio
dalle alte mura alla cui base si aprono grandi finestroni che sembrano chiusi
da grate. Un po' più a destra, quella che ha tutta l'aria di essere una corda
fissata al suolo da un anello scende dalla sommità dell'edificio. Spostando lo
sguardo verso sinistra viene ritratto un braccio di mare con una nave sbattuta
dalle onde in tempesta, la vela dispiegata al vento con a bordo alcune figure
umane; una in particolare, collocata a poppa,
sembra protendere le braccia a cielo. I dubbi si infittiscono e con loro
le domande. Perché uno sfondo così inquietante? Quale drammatica scena viene rappresentata dal
pittore?
Domande che non riceveranno mai una risposta. Si può solo a questo
punto cercare di analizzare il quadro e tentare di contestualizzarlo in un
momento storico ben preciso, quello della fine del Cinquecento. Innanzitutto il
santo, San Leonardo, protettore dei carcerati e per questo ritratto con le
catene in mano. E' evidente: si ringrazia la Madonna e poi il Santo per la sua intercessione.
Lo si ringrazia perché si è stati liberati (o perché ci si è liberati da soli,
come ci fa supporre la corda che cala dalla cima del palazzo) da una prigionia.
Quali i carcerieri? Impossibile saperlo con certezza, ma possibile invece
ipotizzarlo partendo dall'edificio, per poi spostare lo sguardo verso il mare.
Prima la liberazione dunque e poi il
burrascoso attraversamento marittimo. Quale mare? Il Mediterraneo senz'altro; specchio d'acqua che separava da secoli due
culture spesso in conflitto tra loro: quella islamica che nel XVI secolo è
rappresentata dal potente impero Turco ottomano e dai suoi sudditi/alleati
barbareschi del Nord Africa e quella
cattolica della Spagna asburgica. Una battaglia, Lepanto, svoltasi vent'anni
prima dei fatti qui narrati, che non aveva fatto pendere la bilancia in maniera
decisiva a favore della cristianità; un mare ancora insicuro, infestato da
corsari musulmani e cristiani.
Per
ripararsi dalle incursioni barbaresche, come sempre interessate alla
razzia, al bottino e ai sequestri di persona, i sovrani e i viceré spagnoli avevano
approntato nel corso del Cinquecento una serie di postazioni di vedetta
fortificate che punteggiavano le coste dei loro domini. Appena avvistato il
nemico al largo si accendevano i fuochi di segnalazione: due di queste torri si
trovavano nel territorio del nostro comune ci dice Rocco Bruno nella sua Storia
di Tursi. Imponente apparato che però non bastava ancora: bisognava
pattugliare il territorio tra una torre e l'altra e Tursi aveva l'obbligo di
concorrere alla sicurezza comune con "
cavallari dui li quali habbiano da guardare et discorrere da detta Torre della
Bollita (Nova Siri) insino alla bocca
del fiume Sinno" e con altri "cavallari
dui li quali habbiano da guardare e
discorrere dalla bocca di detto fiume Sinno insino al pantano di Santo Basile"
recita un documento posteriore di appena due anni ( 1597) alla data di
realizzazione del nostro dipinto.
Senza dubbio una paura ancestrale quella dei
pirati, radicata negli animi delle popolazioni del posto dai tempi delle
lontane incursioni saracene dell'Alto Medioevo. E Angelus Pitius con sua moglie, la tursitana Giovannella Panevino? Quale il loro ruolo in queste vicende? Rapiti
dai Turchi durante un'incursione e poi liberati dietro il pagamento di un
riscatto? O liberatisi da soli dalla
prigionia tra mille peripezie? Molti indizi, come abbiamo visto, potrebbero
portare a questa conclusione, ma la verità è purtroppo destinata a rimanere forse
per sempre nascosta ai nostri occhi.
Gianluca Cappucci
Bibliografia:
AA.VV, Museo Nazionale d'Arte Medievale e Moderna
della Basilicata,Napoli, 2002;
Rocco Bruno, Storia di Tursi, Moliterno, 1989;
M. Crispino, Colobraro. Un paese, una storia, una
cultura, Vicenza, 1998;
AA.VV, Tursi. La
Rabatana, Matera,
2004.
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