Isabella Morra di Favale (oggi Valsinni
- MT)
Rime I
I fieri assalti di
crudel fortuna
scrivo piangendo, e la mia verde etate;
me che 'n sì vili ed orride contrate
spendo il mio tempo senza loda alcuna.
Degno il sepolcro, se fu vil la cuna,
vo procacciando con le Muse amate,
e spero ritrovar qualche pietate
malgrado de la cieca aspra importuna;
e col favor de le sacrate Dive,
se non col corpo, almen con l'alma sciolta,
essere in pregio a più felici rive.
Questa spoglia, dov'or mi trovo involta,
forse tale alto Re nei mondo vive,
che ‘n saldi marmi la terrà sepolta.
Rime II
Sacra Giunone, se i
volgari amori
son de l'alto tuo cor tanto nemici,
i giorni e gli anni miei chiari felici
fa' con tuoi santi e ben concessi ardori.
A voi consacro i miei verginei fiori,
a te, o Dea, e ai tuoi pensieri amici,
o de le cose sola alme beatrici,
che colmi il ciel de' tuoi soavi odori.
Cingimi al collo un bello aurato laccio
de' tuo' più cari ed umili soggetti,
che di servire a te sola procaccio.
Guida lmeneo con sì cortesi affetti
e fa' sì caro il nodo ond'io m'allaccio,
ch'una sola alma regga i nostri petti.
Rime III
D'un alto monte onde si
scorge il mare
miro sovente io, tua figlia Isabella,
s'alcun legno spalmato in quello appare,
che di te, padre, a me doni novella.
Ma la mia adversa e dispietata stella
non vuol ch'alcun conforto possa entrare
nel tristo cor, ma, di pietà rubella,
la calda speme in pianto fa mutare.
Ch'io non veggo nel mar remo né vela
(così deserto è l infelice lito)
che l'onde fenda o che la gonfi il vento.
Contra Fortuna alor spargo querela,
cd ho in odio il denigrato sito,
come sola cagion del mio tormento.
Rime IV
Quanto pregiar ti puoi,
Siri mio amato,
de la tua ricca e fortunata riva
e de la terra che da te deriva
il nome, ch'al mio cor oggi è sì grato;
s'ivi alberga colei, che ‘l cielo irato
può far tranquillo e la mia speme viva,
malgrado de l'acerba e cruda Diva,
c'ogni or s'esalta del mio basso stato.
Non men l'odor de la vermiglia Rosa
di dolce aura vital nodrisce l'alma
che soglian farsi i sacri Gigli d'oro.
Sarà per lei la vita mia gioiosa,
dè grievi affanni deporrò la salma,
e queste chiome cingerò d'alloro.
Rime V
Non Solo il ciel vi fu
largo e cortese,
caro Luigi, onor del secol nostro,
del raro stil, del ben purgato inchiostro,
ma del nobil soggetto onde v'accese.
Alto Signor e non umane imprese
ornan d'eterna fronde il capo vostro,
cose più da pregiar che gemme od ostro,
che dai tarli e dal tempo son offese.
Il sacro volto aura soave inspira
al dotto petto, che lo tien fecondo
di gloriosi, anzi divini carmi.
Francesco è l'arco de la vostra lira,
per lui sète oggi a null'altro secondo,
e potete col son rompere i marmi.
Rime VI
Fortuna che sollevi in
alto stato
ogni depresso ingegno, ogni vil core,
or fai che ‘l mio in lagrime e ‘n dolore
viva più che altro afflitto e sconsolato.
Veggio il mio Re da te vinto e prostrato
sotto la rota tua, pieno d'orrore,
lo qual, fra gli altri eroi, era il maggiore,
che da Cesare in qua fusse mai
Stato.
Son donna, e contra de le donne dico:
che tu, Fortuna, avendo il nome nostro,
ogni ben nato cor hai per nemico.
E spesso grido col mio rozo inchiostro,
che chi vuol esser tuo più caro amico
sia degli uomini orrendo e raro mostro.
Rime VII
Ecco ch'un'altra volta,
o valle inferna,
o fiume alpestre, o ruinati sassi,
o ignudi spirti di virtute e cassi,
udrete il pianto e la mia doglia eterna.
Ogni monte udirammi, ogni caverna,
ovunq'io arresti, ovunqu'io mova i passi;
chè Fortuna, che mai salda non stassi,
cresce ogn'or il mio male, ogn'or l'eterna.
Deh, mentre chì'io mi lagno e giorno e notte,
o fere. o sassi, o orride ruine,
o selve incolte, o solitarie grotte,
ulule, e voi del mal nostro indovine,
piangete meco a voci alte interrotte
il mio più d'altro miserando fine.
Rime VIII
Torbido Siri, del mio
mal superbo,
or ch'io sento da presso il fin amaro,
fà tu noto il mio duolo al Padre caro,
se mai qui ‘l torna il suo destino acerbo.
Dilli come, morendo, disacerbo
l'aspra Fortuna e lo mio fato avaro,
e, con esempio miserando e raro,
nome infelice a le tue onde serbo.
Tosto ch'ei giunga a la sassosa riva
(a che pensar m'adduci, o fiera stella,
come d'ogni mio ben son cassa e priva!),
inqueta l'onde con crudel procella,
e di':- Me accreber sì, mentre fu viva,
non gli occhi no, ma i fiumi d'Isabella.
Rime IX
Se a la propingua speme
nuovo impaccio
o Fortuna crudele o l'empia Morte,
com'han soluto, ahi lassa, non m'apporte,
rotta avrò la prigione e sciolto il laccio.
Ma, pensando a quel dì, ardo ed agghiaccio,
c'hè ‘l timore e ‘l desio son le mie scrte;
a questo or chiudo, or apro a quel le porte,
e, in forse, di dolor mi struggo e sfaccio.
Con ragione il desio dispiega i vanni
ed al suo porto appressa il bel pensiero
per trar quest'alma da perpetui affanni.
Ma Fortuna al timr mostra il sentiero
erto ed angusto e pien di tanti inganni,
che nel più bel sperar poi mi dispero.
Rime X
Poscia che al bel desir
troncate hai l'ale,
che nel mio cor sorgea, crudcl Fortuna,
sì che d'ogni tuo ben vivo digiuna,
dirò con questo stil ruvido e frale
alcuna parte de l'interno male
causato sol da te fra questi dumi,
fra questi aspri costumi
di gente irrazional, priva d'ingegno,
ove senza sostegno
son costretta a menare il viver mio,
qui posta da ciascun in cieco oblio.
Tu, crudel, de l'infanzia in quei pochi anni,
del caro genitor mi festi priva,
che, se non è già pur ne l'altra riva,
per me sente di morte grevi affanni,
chè ‘l mio penar raddoppia gli suoi danni.
Cesar gli vieta il poter darmi aita.
O cosa non più udita,
privare il padre di giovar la figlia!
Così a disciolta briglia
seguitata m'hai sempre, empia Fortuna,
cominciando dal latte e da la cuna.
Quella ch'è detta la fiorita etade,
secca ed oscura, solitaria ed erma
tutta ho passata qui cieca ed inferma,
senza saper mai pregio di beltade.
E' stata per me morta in te pietade,
e spenta l'hai in altrui, che potea sciorre
e in altra parte porre
dal carcer duro il vel de l'alma stanca,
che, come neve bianca
dal sol, così da te si strugge ogni ora,
e struggerassi infin che qui dimora.
Qui non provo io di donna il proprio stato
per te, che posta m'hai in sì ria sorte
che dolce vita mi saria la morte.
I cari pegni del mio padre amato
piangon d'intorno. Ahi, ahi misero fato,
mangiare il frutto, ch'altri colse, amaro
quei che mai non peccaro,
la cui semplicità faria clemente
una tigre, un serpente,
ma non già te, ver noi più fiera e rea
ch'al figlio Progne ed al fratel Medea.
Dei ben, che ingiustamente la tua mano
dispensa, fatta m'hai tanto mendica,
che mostri ben quanto mi sei nemica,
in questo inferno solitario e strano
ogni disegno mio facendo vano.
S'io mi doglio di te sì giustamente
per isfogar la mente,
da chi non son per ignoranza intesa
i'son, lassa, ripresa:
chè, se nodrita già fossi in cittade,
avresti tu più biasimo, io più pietade.
Baston i figli de la fral vecchiezza
esser dovean di mia misera madre;
ma per le tue procelle inique cd adre
sono in estrema ed orrida fiacchezza;
e spenta in lor sarà la gentilezza
dagli antichi lasciata, a questi giorni,
se dagli alti soggiorni
pietà non giunse al cor del Re di Francia,
che, con giusta bilancia
pesando il danno, agguaglie la mercede
secondo il merto di mia pura fede.
Ogni m'al ti perdono,
né l'alma si dorrà di te giammai
se questo sol farai
(ahi, ahi, Fortuna. e perché far noi dei?)
che giungano al gran Re gli sospiri miei.
Rime XI
Scrissi con stile
amaro, aspro e dolente
un tempo, come sai, contro Fortuna,
si che null'altra mai sotto la luna
di lei si dolse con voler più ardente.
Or del suo cieco error l'alma si pente,
che in tai doti non scorge gloria alcuna,
e se de' beni suoi vive digiuna,
spera arricchirsi in Dio chiara e lucente.
Né tempo o morte il bel tesoro eterno,
né predatrice e violenta mano
ce lo torrà davanti ai Re del cielo.
Ivi non nuoce già state né verno,
che non si sente mai caldo né gielo.
Dunque, ogni altro sperar, fratello, é vano.
Rime XII
Signor, che insino a
qui, tua gran mercede,
con questa vista mia caduca e frale
spregiar m'hai fatto ogni beltà mortale,
fammi di tanto ben per grazia erede
che sempre ami te sol con pura fede
e spregiar per innanzi ogni altro oggetto,
con sì verace affetto,
ch'ognun m'additi per tua fida amante
in questo mondo errante,
ch'altro non è, senza il tu' amor celeste,
ch'un procelloso mar pien di tempeste.
Signor, che di tua man fattura sei,
ov'ogni ingegno s'affatica in vano,
ritrarre in versi il tuo bel volto umano,
or sol per disfogare i desir miei,
ed altri no, ma a me sola vorrei,
ed iscolpirmi il tuo celeste velo,
qual fu quando dal Cielo
scendesti ad abitar la bassa terra
ed a tor l'uom di guerra.
Questa grazia, Signor, mi sia concessa
ch'io mostri col mio stil te e me stessa.
Signor, nel piano spazio di tua fronte
la bellezza del Ciel tutta scolpita
si scorge, e con giustizia insieme unita
de l'alta tua pietade il vivo fonte,
e le pie voglie a perdonarci pronte.
Ombre dei lumi venerandi e sacri,
di Dio bei simulacri,
ciglia, del cor fenestre, onde si mostra
l'alma salute nostra:
occhi che date al sol la vera luce,
che per voi soli a noi chiara riluce!
Signor, cogli occhi tuoi pien di salute
consoli i buoni cd ammonisci i rei
a darsi in colpa di lor falli rei;
in lor s'impara che cosa è virtute.
O mia e tutte l'altre lingue mute,
perché non dite ancor de' suoi capelli,
tanto del sol più belli
quanto è più bello e chiaro egli del Sole?
O chiome uniche e sole,
che, vibrando dal capo insino al collo,
di nuova luce se ne adorna Apollo!
Signor, da questa tua divina bocca
di perle e di rubini, escon di fore
dolci parole c'ogni afflitto core
sgombran di duolo e sol piacer vi fiocca
e di letizia eterna ogniun trabocca.
Guance di fior celesti adorne, e piane
a le speranze umane;
corpo in cui si rinchiuse il Cielo e Dio,
a te consacro il mio:
la mente mia qual fu la tua statura
con gli occhi interni già scorge e misura.
Signor, le mani tue non dirò belle
per non scemar col nome lor beltade;
mani, che molto innanzi ad ogni etade
ci fabricar la luna, il sol, le stelle:
se queste chiare son, quai sarann elle?
Felice terra, in cui le sacre piante
stampar tant'orme sante!
A la vaghezza del tuo bianco piede
il Ciel s'inchina e cede.
Felice lei, che con l'aurate chiome
le cinse e si scarcò de l'aspre some!
Canzon, quanto sei folle,
poi che nel mar de la beltà di Dio
con sì caldo desio
credesti entrare! Or c'hai ‘l cammin smarrito
réstati fuor, ché non ne vedi ‘l lito.
Rime XIII
Quel che gli giorni a
dietro
noiava questa mia gravosa salma,
di star tra queste selve erme ed oscure
or sol diletta l'alma;
chè da Dio, sua mercé, tal grazia impetro,
che scorger ben mi fa le vie secure
di gire a lui fuor de le inique cure.
Or, rivolta la mente a la Reina
del Ciel, con vera altissima umiltade,
per le solinghe strade
senza intrico mortal l'alma camina
già verso il suo riposo,
che ad altra parte il pensier non inchina
fuggendo il tristo secol sì noioso,
lieta e contenta in questo bosco ombroso.
Quando da l'oriente
spunta l'aurora col vermiglio raggio
e ne s'annuncia da le squille il giorno,
allora al gran messaggio
de la nostra salute alzo la mente
e lo contemplo d'alte glorie adorno
nel basso tetto, dove fea soggiorno
la gran Madre di Dio ch'or regna in Cielo.
Così, godendo nel mio petto umile,
a lei drizzo il mio stile,
e ‘l fral mio vel di roze veste velo,
e sol di servir lei,
non d'altra cura, al cor mi giunge zelo,
seguendo le vestigia di colei
che dal deserto accolta fu tra i Dei.
Quando da poi fuor sorge
Febo, che fa nel mar la strada d'oro,
tutta m'interna e l'allegrezza immensa
c'ebbe del suo tesoro
quella che con tanta grazia or a me porge;
ch'io la riveggio con la mente intensa
mirare il figlio in caritate accensa,
nato fra gli animai, con pio sembiante;
e dal sangue che manda al petto il core
nodrire il suo Signore;
e scemo il duce de l'eterno amante
sotto povere veste
spregiar le pompe del vulgo arrogante,
colui che sol pregiò l'aspre foreste
e fu fatto da Dio tromba celeste.
Poi che ‘l suo chiaro volto
alzando, da le valli scaccia l'ombra
il biondo Apollo col suo altero sguardo,
un bel pensier m'ingombra;
parmi veder Giesù nel tempio, involto
fra Saggi, disputar con parlar tardo,
e lei, per ch'io d'amor m'infiammo ed ardo,
versar dagli occhi, per letizia, pianto.
Questi conforti in contra i duri oltraggi
m'apportan questi faggi,
lungi schivando di sirene il canto;
ché per solinghe vie
il bel gioven, a Dio diletto tanto,
con le sue caste voglie e sante e pie
vide il sentier de l'alte ierarchie.
Alzato a mezzo il polo
il gran pianeta cò bollenti rai,
ch'uccide i fiori in grembo a primavera,
s'alcuno vide mai
crucciato il padre contra il rio figliuolo,
così contemplo Cristo, in voce altera
predicando, ammonir la plebe fera
e col cenno, del qual l'Inferno pave,
romper le porte d'ogni duro core,
cacciando il vizio fore.
Quanto ti fu a vedere, o Dea, soave
gli error conversi in cenere
dal caro figlio in abito sì grave?
Quanto beata fu chi le sue tenere
membra a Dio consacrò, sacrate a Venere?
E se l'eterno Foco
giunge tant'alto ch'al calar rimira,
ti scorgo, o Signor mio, fra i tuoi fratelli
senza minacce od ira
del tuo amore infiammargli a poco a poco,
e cò leggiadri detti e gravi e belli
render beati e pien di grazia quelli,
lor rammentando pur la santa pace.
La gioia del mio cor, ch'amo ed adoro,
contemplo fra coloro
che i santi esempi tuoi raccoglie e tace.
O via dolce e spedita,
trovata già nel vil secol fallace;
e chi ‘l primiero fu, dal Ciel m'addita
sol de l'erèmo la tranquilla vita!
Per voi, grotta felice,
boschi intricati e ruinati sassi,
Sinno veloce, chiare fonti e rivi,
erbe che d'altrui passi
segnate a me vedere unqua non lice,
compagna son di quelli spirti divi,
c'or là su stanno in sempiterno vivi,
e nel solare e glorioso lembo
de la madre, del padre e del suo Dio
spero vedermi anch'io
sgombrata tutta dal terrestre nembo
e fra l'alme beate
ogni mio bel pensier riporle in grembo.
O mie rimote e fortunate strate,
donde adopra il Signor la sua pietade!
Quando discovre e scalda il chiaro sole,
canzon, è nulla ad un guardo di lei,
ch'è Reina del Ciel, Dea degli dei.
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