Armando Lostaglio tra ricordi religiosi, impegno civile e cinema da Venezia
Madre
Teresa a cent'anni dalla nascita di Armando Lostaglio
Rionero
in Vulture - Una scena che sa d' inattendibile: una chiesa colma di fedeli per
la messa del vespro; un bambino con il gelato in mano che l'attraversa tutta
quasi fino all'altare; una suora che, vedendolo, lo riaccompagna alla porta,
compiaciuta ed austera lo allontana, lasciandolo fra i suoi compagni di strada.
Sono poco più grandi di lui, portano fra le braccia una pesante fisarmonica da
cui ogni tanto escono tristi ballate balcaniche e qualche nota da o' sole mio.
Col berretto in mano si aggirano da giorni davanti alle chiese chiedendo
qualche centesimo. A questa scena c'è qualche cenno di reazione: qualcuno
ritiene che vadano allontanati, non è posto per loro, potrebbero adocchiare qualcosa
di prezioso in chiesa...per altri invece è un gesto improprio, perché la chiesa
(solo la chiesa) è luogo di tutti e nessuno può arrogarsi il diritto di
allontanare persone indesiderate. Qualcun altro ricorda addirittura i forni
nazisti pieni di zingari come di ebrei.
A
nessuno sta il diritto di giudicare: viene tuttavia da pensare che Madre Teresa
di Calcutta, di cui in questi giorni celebriamo i cento anni dalla nascita (in
una città dei Balcanici), abbia vissuto invano il suo passaggio sulla terra:
quale insegnamento ci avrà lasciato? E poi non era Gesù che esclamava con
forza: Lasciate che i bambini vengano a me...?
Domande
gravose, specie d'estate, nella calura di una chiesa.
Fra
le strade cittadine, nei luoghi più impensabili, trova dimora da qualche tempo
una donna dall'aspetto trasandato, capelli lunghi mai curati; in mano sempre un
contenitore di vino e sigaretta fra le dita; avrà quarant'anni, ma il suo
aspetto ne invalida ogni ipotesi. Accovacciata, trascorre il giorno come la
notte in qualche angolo sotto il cielo. Se ci si avvicina, sussurra qualche
verso incomprensibile, forse inveisce ma non sembra sia aggressiva. Si sta alla
larga, perché maleodorante e perniciosa. E' stata ospitata, per un pasto e una
doccia nella Casa della Gioventù, ma forse momenti di lucidità ne avrà ormai
ben pochi per rendersi conto della sua condizione.
Una
clochard di altri tempi, come i francesi li definivano romanticamente. Ma è
solo lì, a due passi da noi, servizi sociali compresi. Madre Teresa non l'ha
conosciuta: sarebbe stata felice di amarla. A
lei, alla sua opera, vola la canzone "Khorakhané che De André dedicava ai Rom;
e questo verso di "Smisurata preghiera": "Per chi viaggia in direzione ostinata e contraria / col suo
marchio speciale di speciale disperazione,
e tra il vomito dei respinti muove gli ultimi passi / per consegnare alla morte
una goccia di splendore, di umanità, di verità".
Maria davanti alla "mia" chiesa di A.L.
Sono giorni che si parla insistentemente degli
zingari che il Presidente francese intende allontanare dalle proprie città, dai
propri confini. Una quasi deportazione, ammonisce qualcuno. Giudizi favorevoli,
contrastanti, carità cristiane e ordine pubblico. Diversificate e mai unanimi
sono le posizioni.
Il pensiero va a Maria, giovane mamma macedone; se
ne sta lì da anni ogni domenica, davanti ad una chiesa di Rionero, a farci
sentire il senso di colpa di essere nati in una nazione che loro, nonostante
tutto, invidiano. Siamo agiati noi, sebbene trasciniamo addosso tutti i
problemi atavici che la storia ci ha destinati. Se ne sta lì Maria, spesso col
suo giovane marito e un bambino. Il parroco offre loro sollievo, vivande e
vestiario provenienti da parrocchiani di buona volontà. Loro parenti presidiano
altre chiese e il cimitero, più affollato di domenica. Con la mano tesa.
Proprio non riescono a mettersi in "regola" per un lavoro. Per questo, devono andar via da noi. E poi
l'accattonaggio mette a nudo la nostra (presunta) civiltà. Infine, rubano.
"Gli zingari rubano, è vero, però io non ho mai
sentito dire - non l'ho mai visto scritto da nessuna parte - che gli zingari
abbiano rubato tramite banca. Questo è un dato di fatto." E' l'asserzione che Fabrizio De André
lanciava provocatoriamente una ventina di anni fa, lui che ai Rom in particolare
dedicava canzoni struggenti. Nel suo ultimo album Anime Salve
dedica agli zingari una delle
liriche più ricche di valori: Khorakhané. E' vivo e solidale
l'interesse del poeta verso il mondo dei diseredati, degli ultimi, degli
zingari. Il pezzo è fondato sulla vita nomade dei Khorakhané, nome di una tribù
Rom di provenienza serbo-montenegrina. De André, durante un concerto affermò
persino che "i Rom sarebbe un popolo da insignire con
il Nobel per
la pace per
il solo fatto di girare per il mondo senza armi da oltre 2000 anni."
Parole coraggiose, dure verso la nostra modernità, eppure loro sono lì,
da prima del Muro di Berlino, oggi persino comunitari, come i Rumeni. In quella canzone i Rom vengono rappresentati come individui
senza una vera casa e per questo assolutamente liberi e privi di
condizionamenti economici e sociali. Il viaggio degli zingari non ha una
meta, anzi, gli zingari non si preoccupano neanche di averne una. Il loro
eterno peregrinare non ha uno scopo, ma fa parte da millenni del loro Dna.
Nel film di alcuni lustri fa,
presentato a Venezia da Mario Soldini Un'anima
divisa in due, si evidenzia la impossibilità di una integrazione sociale
nonostante l'amore fra un giovane italiano ed una zingara. Vige il disagio di
non saper lavorare o di rispettare un impegno di lavoro, ovvero sentire più
dignitoso quell'allungare la mano e chiedere un aiuto, soldi magari. Tutto
questo ci rende impotenti e forse a disagio con quella cultura del
prendere-senza-dare. In quelle realtà urbane dove maggiormente si avverte la
presenza di nomadi, ogni discorso pretestuosamente umanitario non attecchirebbe
affatto, perché la sicurezza sociale è un valore ed una conquista che non andrebbero
mai sminuiti, né patteggiati.
Eppure Berthold
Brecht ci ricorda questi versi, scritti nel 1938: ogni commento è superfluo.
Prima di tutto vennero a prendere gli zingari
e fui contento, perché rubacchiavano.
Poi vennero a prendere gli ebrei
e stetti zitto, perché mi stavano antipatici.
Poi vennero a prendere gli
omosessuali,
e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi.
Poi vennero a prendere i comunisti,
ed io non dissi niente, perché non ero comunista.
Un giorno vennero a prendere me,
e non c'era rimasto nessuno a protestare.
IL LEONE D'ORO
AL FILM DI SOFIA COPPOLA "Somewhere" di Armando Lostaglio
E'
una donna a vincere il Leone d'oro, Sofia Coppola, come in passato Agnes Varda,
la Von Trotta e Mira Nair; quest'anno pure una donna ha vinto l'Oscar per la
prima volta: Kathryn Bigelow. Evviva. Ma l'esultanza cede un po' il passo alla
non eccellenza del film, che si impone all'attenzione più per la sua
delicatezza nel trattare il tema, che per la sua forza intrinseca, cinematograficamente
parlando. La Coppola si era esaltata con "Marie Antoinette" quattro anni fa, si
era superata in originalità espressiva e modernità, ma in questo film non
riconosciamo tali novità, se non nel rapporto padre-figlia adolescente,
ambientato nella deprimente ed edulcorata cornice dei divi hollywoodiani, ai
limiti del degrado umano e dell'indolenza etilica.
C'era probabilmente di
meglio da premiare in questa Mostra veneziana: nell'ordine "Miral" di Julian
Schnabel sulle ferite non rimarginate del conflitto palestinese-israeliano;
"Post mortem" dell'argentino Pablo Larrain con tanto di autopsia al presidente
Allende, ucciso (con la sua democrazia) nel golpe dell'11 settembre del '73, e
ancora il russo Aleksei Fedorchenko con
"Silent Souls", un connubio fra antropologia, filosofia e poesia, dai toni
tarkovskiani. Ci sarebbe da citare ancora "Venere nera" (Venus noire) di
Abdellatif Kechiche (che già colpì a Venezia con "Cous cous" due anni fa), una sorta di rivisitazione della Donna
scimmia di Ferreri, ma ben più crudele. Conviene fermarsi a questi titoli, ce
ne sarebbero altri. Tuttavia, quelli che maggiormente hanno registrato applausi
estremi fanno parte delle rassegne parallele come Settimana della critica e
Giornate degli autori: è qui che si annidano opere fresche, lungi da
convenzioni e sovrastrutture. Vanno segnalati "Beyond" della svedese Pernilla
August che già lo scorso anno colpì per la freschezza con la quale trattava i
tradimenti e le "soluzioni". In molti si chiedevano "perché non è in concorso un
film così', forse per la "paura" di doverlo premiare? Ed ancora il film
bosniaco "Cirkus Columbia" del già Oscar Danis Tanovic, purtroppo già
presentato al Festival di Sarajevo e quindi non da concorso a Venezia.
L'augurio è che tutte queste opere possano trovare spazio nelle sale italiane,
anche se non si nutre troppa speranza viste le mancate uscite di film della
scorsa edizione di autori di fama come Michael Moore e Oliver Stone. Per i film
italiani andrebbe fatto un discorso a parte: la competizione con opere
straniere spesso ci penalizza, specie quando si tratta di autori non troppo
"autorevoli". Ebbene i Celestini, i Martone, i Costanzo e i Mazzacurati hanno
espresso opere di un certo valore, con soggetti degni e interpretazioni pure.
Eppure mancano di qualcosa, di forza onnicomprensiva, al cospetto di altri
cineasti con storie meno "nostrane". Persino il monumentale "Noi credevamo"
(tre ore e mezzo incollati alla poltrona) lascia perplessi, non tanto per la
trattazione storica (gli avevamo confutato in conferenza stampa la mancata
trattazione del brigantaggio postunitario e delle casse di Napoli dilapidate
dai piemontesi), quanto all'"autocontrollo" che Martone dimostra nella
sceneggiatura (scritta con De Cataldo).
Perché noi apparteniamo al cinema italiano,
ed è sempre bene ricordare quel passaggio di Orson Welles: ... quando penso alla
Svizzera mi ricordo degli orologi a cu-cù; quando penso all'Italia mi ricordo
di Caravaggio". E così vince la Coppola (che pure ha geni italiani) mentre
porta in scena persino sequenze dai Telegatti di Mediaset, con tanto di Simona
Ventura (si, proprio lei) a campeggiare anche in una Mostra autorevole, ricca di arte e non già di
monotonie gratuite.
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