Ci descrive la dolcezza
della sua anima, Antonia Pozzi, giovane poetessa italiana del Novecento
"Io non devo scordare che
il cielo fu in me, tu eri il cielo in me, che non parlavi mai del mio volto, ma
solo quand'io parlavo di Dio mi toccavi la fronte con lievi dita e dicevi: sei
più bella così quando pensi le cose buone". Con questi splendidi versi Antonia
Pozzi ci descrive la dolcezza della sua anima.
La poetessa nasce il 13 febbraio
1912, bionda, delicatissima, dolcissima. Antonia è una bella bambina, come la
ritraggono molte fotografie, dalle quali sembra trasparire tutto l'amore e la
gioia dei genitori, l'avvocato Roberto Pozzi e la contessa Lina, figlia del
conte Antonio Cavagna Sangiuliani di Gualdana e di Maria Gramignola,
proprietari di una vasta tenuta terriera. Antonia cresce, dunque, in un
ambiente colto e raffinato.
Nel 1930 si iscrive alla facoltà di Filologia
dell'Università statale di Milano, frequentando coetanei quali Vittorio Sereni,
suo amico fraterno, Enzo Paci, Luciano Anceschi, Remo Cantoni; segue le lezioni
del germanista Vincenzo Errante e del docente di estetica Antonio Banfi, col
quale si laurea nel 1935 discutendo una tesi su Gustave Flaubert.
In tutti
questi anni di liceo e di università, Antonia sembra condurre una vita normalissima,
almeno per una giovane come lei, di rango alto-borghese, colta, piena di
curiosità intelligente, ama la montagna dove si avventura in molte passeggiate
vivendo esperienze intensissime, che si traducono in poesia o in pagine di
prosa che mettono i brividi, per lo splendore della narrazione e delle
immagini.
Le sue liriche costituiscono una sorte di diario in versi, furono
pubblicate per la prima volta nel 1939, di recente sono stati resi noti i Diari e le Lettere. Antonia Pozzi viveva dentro di sé un dramma esistenziale, né
la poesia, né la fotografia, né la sua vocazione artistica riusciranno mai a
colmare.
La mattina del 2 dicembre 1938 va regolarmente a scuola; i ragazzi la
scorgono però piangere sommessamente, saluta i suoi allievi sollecitandoli a
«essere buoni» e si dirige nella periferia milanese. Si sdraia in un prato e,
assunta una dose massiccia di barbiturici, si lascia morire.
Lascia tre
messaggi: uno, brevissimo, per Sereni, scritto su un foglio dove aveva
precedentemente trascritto una poesia dell'amico, Diana; un altro per
Formaggio; un altro ancora per i genitori: «ciò che mi è mancato è stato un
affetto fermo, costante, fedele, che diventasse lo scopo e riempisse tutta la
mia vita.... Fa parte di questa disperazione mortale anche la crudele oppressione
che si esercita sulle nostre giovinezze sfiorite.... Desidero di essere sepolta a
Pasturo, sotto un masso della Grigna, fra cespi di rododendro. Mi ritroverete
in tutti i fossi che ho tanto amato. E non piangete, perché ora io sono in
pace. La vostra Antonia».
I funerali si svolsero il 5 dicembre a Milano e il
giorno dopo a Pasturo, dove è sepolta. Nei prati spazzati da un forte vento di
tramontana vi era un interminabile corteo di persone, ad accompagnarla come lei
stessa aveva scritto, il 3 dicembre 1934, in Funerale
senza tristezza. La famiglia negò la circostanza «scandalosa» del suicidio,
attribuendo la morte a polmonite. Aveva soli 26 anni.
Antonella Gallicchio
IL CIELO IN ME
Io non devo scordare
che il cielo
fu in me.
Tu
eri il cielo in me,
che non parlavi
mai del mio volto, ma solo
quand'io parlavo di Dio
mi toccavi la fronte
con lievi dita e dicevi:
- Sei più bella così, quando pensi
le cose buone -
Tu
eri il cielo in me,
che non mi amavi per la mia persona
ma per quel seme
di bene
che dormiva in me.
E se l'angoscia delle cose a un lungo
pianto mi costringeva,
tu con forti dita
mi asciugavi le lacrime e dicevi:
- Come potrai domani esser la mamma
del nostro bimbo, se ora piangi così? -
Tu
eri il cielo in me,
che non mi amavi
per la mia vita
ma per l'altra vita
che poteva destarsi
in me.
Tu
eri il cielo in me
il gran sole che muta
in foglie trasparenti le zolle
e chi volle colpirti
vide uscirsi di mano
uccelli
anzi che pietre
- uccelli -
e le lor piume scrivevano nel cielo
vivo il tuo nome
come nei miracoli
antichi.
Io non devo scordare
che il cielo
fu in me.
E quando per le strade - avanti
che sia sera -
m'aggiro
ancora voglio
essere una finestra che cammina,
aperta, col suo lembo
di azzurro che la colma.
Ancora voglio
che s'oda a stormo battere il mio cuore
in alto
come un nido di campane.
E che le cose oscure della terra
non abbiano potere
altro - su me,
che quello di martelli lievi
a scandere
sulla nudità cerula dell'anima
solo
il tuo nome.
(ANTONIA POZZI)
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