Del cinema e dell'altro di Armando LOSTAGLIO
Vittorio
Squillante, una vita per il cinema
Lo
incontriamo nel suo studio romano, lo Studio Squillante, in un elegante palazzo
dalle parti di San Pietro. Uno studio pieno di ricordi, tanti i ritratti
d'autore: campeggia una dedica personale di Frank Sinatra; è ripreso con Joe
Pesci, con Robert De Niro, con un giovanissimo Massimo Ranieri, con il premio Oscar
Murray Abraham, e con Harvey Keitel, ed ancora con Angela Luce e Lina Sastri.
Tante le personalità del cinema che da decenni appassionano ed emozionano le
platee di ogni luogo. Sono tutti suoi amici prima ancora che essere legati
all'Agenzia che Vittorio Squillante da molti lustri dirige. E' un uomo
apparentemente timido Vittorio, napoletano dentro che ha portato negli Stati
Uniti quello spirito che sa attraversare ogni contingenza, nella propria
unicità. Vittorio Squillante ha legato la propria esistenza ai suoi grandi
amori: il cinema e il calcio, secondo tradizione. Ci accoglie con i versi di una sua poesia
dedicata all'amico Massimo Troisi.
Ci racconta
in breve la sua brillante carriera, che fa di Vittorio una delle personalità
più apprezzate nel mondo del cinema, ma anche del teatro e della televisione.
Ma tutto nasce con la passione per il calcio,
dottor Squillante?
"Quando avevo
15 anni andai a studiare a New York. Ma già a 14 anni giocavo a Napoli con la
Folgore, con la quale fummo campioni della Campania, dopo aver vinto il
campionato a Napoli. Trasferitomi in America, partecipai al campionato di serie
A; nella squadra ebbi il piacere di avere come compagni Giovannini (ex
giocatore della nazionale italiana), l'argentino Andrade e Viney, che aveva
giocato col Napoli."
E' stato dunque il pallone a catalizzare anche in
America gli interessi giovanili?
"Certo.
Quando compii 18 anni e ricevetti la cittadinanza americana, fui richiamato
dall'esercito Statunitense. Dopo il periodo di addestramento nel New Jersey,
fui trasferito in Germania e li inserito
nella famosa First Division dell'esercito Usa. Giocai con la squadra militare
contro una selezione inglese, e sono stato notato da un dirigente dello
Schweinfurt 05. Con questa squadra
partecipai al campionato tedesco di serie A: correva l'anno 1954.
Fui richiesto
da alcune squadre italiane ma non fu possibile tesserarmi perché avevo perso la
nazionalità italiana ed allora era vietato tesserare più di uno
straniero. Per cui, dopo due anni, lasciai la squadra tedesca e ritornai in
America dove continuai a giocare ed a studiare fino a conseguire il diploma di
laurea dell'American University."
L'amore per il calcio, dunque, una appassionante
"militanza" e poi l'abbandono a vantaggio del cinema. Come nasce il suo amore
per il cinema e per la poesia: la napoletanità quale valore ha avuto?
In Italia
feci ritorno con mia moglie ed i miei figli, lavorando per il governo USA, in
qualità di direttore di Services Division alla base di Sigonella (Catania).Il
mio amore per il cinema nacque quando conobbi Vittorio Caprioli ed il
grandissimo Giancarlo Giannini, che all'epoca giravano un film a Catania. Mi
dimisi così dal mio impiego con il governo USA e mi trasferii con la mia
famiglia a Roma, dove iniziai la mia attività di agente e procuratore.
Quali sono state le "scoperte" artistiche che
ritiene importanti sia sotto l'aspetto umano che artistico?
Grazie al mio
grandissimo "cliente" Giannini, stimato in tutto il mondo, mi associai con
l'avvocato Jay Julien, che allora rappresentava in America e nel mondo Robert
De Niro, Harvey Keitel, Christopher Walken, Joe Pesci, Martin Scorsese, Murray
Abraham. La lista dei miei associati si arricchì con la rappresentanza di
grandissimi attori quali Giuliano Gemma, Lina Sastri, Angela Luce, Angela
Molina, Isa Danieli, ed ancora Marco Leonardi, Bianca Guaccero. Durante la mia
attività nel mondo dello spettacolo ho avuto l'onore ed il piacere di conoscere
Frank Sinatra, F. Murray Abraham, Sergio Bruni, Sergio Leone, Lina Wertmueller,
e tanti grandi artisti con i quali si è instaurato un rapporto di grande
amicizia.
C'è un nome che però deve a lei la sua "scoperta?
Fui il primo
a scoprire il grande talento di Giovanni Calone, in arte Massimo Ranieri. Lo
conobbi quando aveva solo 12 anni. Capii subito che sarebbe diventato il grande
cantante ed attore che negli anni è diventato.
Dunque, dottor Squillante, la sua napoletanità l'ha
intensamente vissuta nelle esperienze più platoniche della sua città.
Sicuramente.
Il calcio, la poesia ed il cinema sono stati da sempre le passioni della mia
vita. La poesia mi
ha sempre accompagnato: devo questo amore alla mia Napoli che mi ispira nel
cuore e nella mente. Fu proprio Sergio Bruni a suggerirmi di pubblicare il
libro di poesie "Oltre il sipario", edito da EditricErmes di Potenza
diretta dal prof. Lucio Attorre, con la prefazione affettuosa di Giancarlo
Giannini. Un grazie
particolare va dunque a Giancarlo e a F.
Murray Abraham, che considero miei cari fratelli.
Armando
Lostaglio
Il cinema di
Assanti
Giambattista
Assanti, dopo tante regie teatrali, sta girando il suo primo film, e ha nel
cast la divina Claudia Cardinale. E' irpino, di Mirabella Eclano, ed è uno
degli ultimi veri cinéfili, forse perché ha respirato sin da bambino l'atmosfera
di una sala di proiezione, avrà visto migliaia di film fino a contagiarne la
propria esistenza. Sua padre e sua madre hanno gestito per decenni la multisala
Carmen di Mirabella Eclano, e lui stesso è stato un instancabile proiezionista
itinerante nei "ridenti quanto scoscesi contrafforti irpini" come ha scritto il
critico Caprara sul Mattino.
In questa sua comunicazione ci partecipa la
recente dipartita della madre che "merita - cito ancora Caprara - d'essere
divulgata in nome e per conto di uno strenuo amore per il cinema coltivato
lontano dalle mille luci delle città e in grado d'eguagliare in verità e poesia
il nostro culto di "Nuovo cinema Paradiso". Personalmente mi ha
riportato alla memoria la signora Linda dello storico cinema Vorrasi di
Rionero, (sempre elegante alla cassa, persino nel fumare) e quando da ragazzino
non avevo i soldi per entrarci (ci andavo quasi tutti i giorni), mi faceva
entrare di nascosto ...
Dedichiamo queste commosse parole di Giambattista a quanti continueranno ad
amare il cinema (non dimentico la signora Lidia del "Lovaglio" di Venosa) nel
ricordo di quelle sale fumose della nostra adolescenza, e di quelle immagini
proiettate sul bianco schermo che hanno invaso e conquistato per sempre la
nostra vita.
Armando
Lostaglio
Mia madre non c'è più...! E' andata via per sempre da un letto d'ospedale di un
pomeriggio freddo, plumbeo...di un primo venerdi di Marzo.
Le ho tenuto la mano stretta e le ho fatte centinaia di carezze, facendo
attenzione che le mie lacrime non le bagnassero le sue mani e il suo volto...la
sua fronte...i suoi occhi.
Continuavo a sussurarle che bisognava tornare alla cassa del cinema, che
bisognava sbigliettare per il nuovo film della settimana e che, tutto sommato,
il cinema aveva ancora bisogno di Lei.
Mia madre per oltre 50 anni è stata la cassiera del mitico cinema CARMEN (oggi
multisala) e con il suo sorriso, con la sua bontà ha contribuito al
successo di tanto cinema italiano.
Nel corso del tempo, ha incontrato attori, produttori, sceneggiatori (mamma non
permetteva che gli ospiti andassero al ristorante) e così si dilettava
ad accogliere in casa con la sua squisita cucina Gianni Amelio, Vincenzo
Cerami, Margareth Von Trotta, Richard Attemborough, Werner Herzog, Pietro
Valsecchi, Alessandro Haber, Michele Placido,Enrico Vanzina, Ricki Tognazzi e
Simona Izzo, Silvia Scola,Enrico Lo Verso...
Solo pochi mesi fa aveva conosciuto a telefono Claudia Cardinale (il suo mito
di una vita intera) e in bella mostra nel salotto di casa, esponeva a amici
e parenti (come un trofeo conquistato sul campo) una dedica dell'attrice su un
articolo di giornale che la ritraeva in occasione di una consegnadi un Premio
"Una vita per il Cinema".
Mia madre ha lavorato nel cinema e lo ha sempre amato insieme a mio padre,
quando appena sposati, negli anni 50, gestivano un piccolo cinema di provincia.
Papà era l'esperto e affascinante proiezionista e mamma era la simpatica e
gentile cassiera.
Nelle poche ore di vita che un crudele destino aveva assegnato a mia madre, ho
rivisto (come si può vedere in una vecchia pellicola in bianco e nero)
il lavoro del cinema dei miei genitori mentre riecheggiavano le risate del
pubblico ai film comici o avvertivi le lacrime di commozione di "quel
pubblico" che non tornerà mai più.
Sembrava che in quella triste camera d'ospedale ci fosse passata la storia del
cinema (da Via col vento a Ben-Hur, da Anonimo veneziano a Love story, da Il
padrino a La stangata).
Il giorno dopo, quando la sua bara ha sostato per pochi attimi davanti
all'ingresso del cinema, e la gente, ha voluto salutarla con un lungo e
commovente applauso, ho avuto la conferma: mia madre con mio padre ha
rappresentato il bel cinema di una volta, e con il loro sorriso hanno regalato
alla gente per anni "i sogni della vita"...
per questo hanno rappresentato per quella gente che si è sentita
improvvisamente smarrita, triste, vuota...un pezzo della loro vita!
Solo ora capisco ciò che mi sembrava trascurabile:...mia madre si chiamava
MARIA MONGIELLO ma amava firmarsi come MARIA MONGIELLO - CINEMA CARMEN.
...in quanto a me non resta che aggrapparmi almeno a una promessa...raccontare
alle nuove generazioni che la loro vicenda è stata la storia di alcune persone
la cui vita non era il cinematografo...ma il cinematografo era la loro vita!
Giambattista Assanti
"Galleria
delle Armi" di Salvio Esposito
La chiamavano
"Galleria delle armi", perché venivano disseminate le armi dai
briganti meridionali in lotta contro il neonato stato unitario. In quella
galleria, vicino a Balvano, in Basilicata, si è consumato il più grave
incidente ferroviario d'Europa. Sono trascorsi quasi settant'anni da quella
notte tra il 2 e 3 marzo del 1944, mentre la guerra incombeva su quelle
popolazioni stremate da fame e distruzioni. Quel maledetto treno merci 8017
contribuì a rendere ancora più angosciosa la vita di una comunità oltre ogni
immaginabile destino. Morirono più di 500 persone in quella fredda notte nella
Galleria delle Armi, subito dopo la stazione di Balvano, in provincia di
Potenza.
Molti altri furono i dispersi, un numero ancora oggi imprecisato. E
nel sonno non si accorsero neppure della tragedia, respirando il monossido di
carbonio sprigionato dalle ciminiere delle due locomotive a vapore, che
trainavano il lungo convoglio che da Napoli era diretto a Potenza. Si trattò di
una tragedia annunciata, benché nel verbale del 9 marzo 1944 del Governo
Badoglio si legge testualmente: "La sciagura deve attribuirsi alla pessima
qualità del carbone fornito dal Comando Militare alleato perché già si era
verificato, sulla stessa tratta, un caso di morte per asfissia del personale di
macchina di un treno dell'autorità alleata". Era carbone proveniente dalla
Jugoslavia, di quello pessimo che sprigionava poco calore e tanto monossido di
carbonio.
Sulla linea Napoli-Potenza gli anglo-americani avevano istituito solo
due treni alla settimana per i viaggiatori, tutti gli altri erano treni merci
che servivano per il trasporto di materiale militare. Ora un libro di Salvio
Esposito "Galleria delle Armi" (Marotta &Cafiero editori) ha
riaperto le ferite mai lenite di quella tragedia, le cui responsabilità non
sono mai state chiarite del tutto. Esposito, psicoterapeuta prodigo alla
scrittura, ne traccia le vicende umane con un romanzo tra invenzione e realtà.
Il romanzo storico raccoglie testimonianze e riscrive i profili di gente comune
alla ricerca di vivande e mezzi di sopravvivenza, a pochi mesi dalle storiche
Quattro Giornate di Napoli. Quel treno serviva alla popolazione per rifornirsi
di generi di prima necessità, che scarseggiavano nelle grandi città ed erano
reperibili solo nelle zone interne come le campagne lucane.
Ma su quel treno
c'era anche chi doveva viaggiare, e per assenza di mezzi pubblici era obbligato
a salire su quei carri merci. Le cifre del disastro però furono superiori come
emerse dagli articoli sul Corriere della Sera e un trafiletto del New York
Times. Esposito immagina una serie di personaggi alla ricerca della verità.
Tante probabilmente le cause: soprattutto le locomotive alimentate da carbone
non idoneo e il sovraccarico di passeggeri, un treno eccessivamente lungo su
una salita ferroviaria impervia, la sostituzione della locomotiva elettrica con
due macchine a vapore in testa al treno nella stazione di Salerno. Il governo
Badoglio bollò quelle vittime come "viaggiatori di frodo" e il
silenzio avvolse una delle più grandi tragedie ferroviarie del secolo scorso.
Una tragedia seppellita in fretta, come furono seppelliti in fosse comuni i 519
deceduti nel cimitero di Balvano, dopo aver buttato della calce viva su di essi.
A quei corpi si poteva dare una sepoltura migliore, in modo tale che i
familiari ne potessero far riesumare i resti. Trentasei anno dopo, Balvano
ritorna alla cronaca per il terribile sisma del 23 novembre 1980, nel quale il
crollo della chiesa seppellì decine di bambini. Nomi come Balvano evocheranno
sempre quella pietas arcaica, oltre ogni oblio e gli opportunismi della storia.
Armando
Lostaglio
La primavera
a Monticchio
E'
semplicemente un angolo di natura superba. La primavera è il capolinea della
sua rinascita, una esplosione di profumi e di colori, fiori e piante rinverdite
come per una festa. Le rive dei due laghi sorridono con occhi attenti e astuti:
il Lago Piccolo e il Lago Grande, così
li chiamano come i figli di un'unica madre.
Monticchio è
il bacino dei laghi vulcanici, luogo ameno e ripreso alla grazia, all'armonia.
Il punto di arrivo di un viaggio nel verde dei pascoli e nel giallo delle
ginestre, macchie sanguigne di papaveri; il punto d'incontro, l'apoteosi dei
colori ben più caldi in autunno, e riesplosi nel sole di primavera.
I dintorni
fanno da preludio: dalla valle dell'Ofanto in quà, Monticchio Bagni (delle
antiche terme), Sgarroni, San Martino, la collina del Castello: qui si
custodisce e
si conserva
la Bramea, unico esemplare di farfalla in Europa che lo scienziato Hartig (un
conte venuto da lontano) identificò in quella fresca sera di primavera del
1963. Cinquant'anni fa, un secolo fa, una vita fa.
Ovunque, a
scandire il paesaggio, sono le vigne e gli ulivi, fra i paesi adagiati sulle
alture vulcaniche, dominati dalle vedette naturali, dal Vulture. A planare su
tutto i nibbi e i falchi, e ancora uccelli rari che migrano e che ritornano,
volteggiano fra le nuvole che cangiano spesso sopra a Sgarroni, luogo di un
verde intenso che qualcuno ha definito "Irlanda in Lucania". Da qui si aprono
quegli orizzonti paralleli di montagne indefinite verso l'Irpinia, oltre il
Toppo di Castelgrande e i passi e le gole fra le foreste care ai briganti. La
collina talvolta in dissolvenza appaiono come la "Montagna Sainte-Victoire"
pennellata da Cezanne.
Eppure, da
queste parti si consuma una sorta di invasione che impunemente chiamano
turismo.
Qui ben altro
dovrebbe essere il culto, verso un luogo che merita la visita come si fa ai
santuari. Perché questo è un santuario della natura, e della storia che si
coniuga con l'arte: le Mura di Sant'Ippolito, la Badia di San Michele che si
specchia nel Piccolo, i resti del Castello sulla collina fra camminamenti
naturali quando si va per asparagi in primavera; il museo naturale
nell'abbazia; e poi i pascoli e le sorgenti, ed ancora l'odore del pane nei
borghi, fra gente temperata e generosa. I marchigiani che nel secolo scorso si
sposavano ad aviglianesi e rioneresi: un connubio nel segno della terra, della
civiltà rurale. Una religiosità senza tempo.
Questa è
ancora Monticchio, dove ad accogliere l'uomo moderno è tuttavia un traffico di
persone rumorose e di suoni che non conciliano con le armonie della natura.
Solo le sinfonie di Beethoven dovrebbero aver luogo in questo luogo comune
dello spirito, musiche diffuse dalle cime circostanti, per dare pienezza alla
grazia, alla bellezza.
Il bello e il
buono, quello che si offre e che merita ancora di essere degustato. Cucina
sana, vino locale, olio sincero, frutti di bosco e riserve del maiale. I
prodotti antichi di questa terra che fa della sua ricchezza il bagaglio unico
col quale affrontare ogni idea di evoluzione, atteso che si sia in grado di
saperla apprezzare.
La generosità
della natura dai colori illuminanti che in primavera trovano l'apoteosi: questa
può essere l'eredità di questo luogo che dovremmo saper ascoltare. Ma per farlo
ci vuole genio.
Armando
Lostaglio
Il peso e la
gloria
La parola
gloria in lingua ebraica evoca l'idea del peso. I salmi aggiungono che è il
"peso dell'amore di Dio per i suoi figli". Gloria come peso, ovvero gloria come
raggiungimento elevato di un ego che si spinge oltre, che si eleva dalla massa
comune, semmai si confronta con una massa critica, ma poi invoca l'elevatezza.
La gloria. Non sempre chi cerca la gloria, sia essa artistica, politica oppure
economica, ricorda l'evocazione ebraica, il peso che essa comporta, quasi un
contrappasso o un ossimoro. E' anche il peso di rappresentare una comunità, i
meno abbienti, gli indifesi, quelli che il vangelo chiama gli ultimi, o le
istanze di chi si affanna a raggiungere indenne il fine mese.
E' una
responsabilità, come quella di essere persino un fiore (lo esprimeva la
Dickinson). E invece le nostre cronache, nostre di una minuscola realtà
territoriale (la Basilicata, se confrontata con l'universo mondo, o anche solo
con questa nazione) ci spiegano che abbiamo toccato ancora una volta il fondo:
la gloria di chi si arrogava il diritto di rappresentanza (persino degli
ultimi) fa i conti con la leggerezza di avere un ruolo cui non dar alcun conto,
senza peso dunque.
Molti di loro si professano cristiani, o anche di una fede
politica e culturale che miri all'uguaglianza quantomeno, all'evoluzione civile
nei migliore dei casi. E invece niente. Basta poco per sprofondare, prima
nell'imbarazzo e nell'ilarità più scurrile, poi nell'inquietudine. E tuttavia,
occorre ostinarsi contro il "sono tutti uguali, della stessa pasta", no. Si può
peccare sempre e comunque. Nessuno giudichi, poiché nessuno sa di essere senza
peccato: lo rilevava quel Rivoluzionario duemila anni fa.
Il primo film
di Pier Paolo Pasolini si chiama "Accattone", pieno di umile religiosità, lo
presentò non senza polemiche alla XXII Mostra di Venezia; era troppo avanti
lui, che prevedeva in quel capolavoro il "genocidio generazionale", dei
borgatari, degli esclusi. Ma cambiano solo le coordinate rispetto ad oggi, il
mudus vivendi. Il poeta-regista aveva previsto anche questo? Erano i primi anni
'60: il futuro, anche il nostro, nasceva allora.
Armando
Lostaglio
Resistenza o
Liberazione
La Festa
della Liberazione cade a ridosso della Festa del Lavoro.
"Lo avrai,
camerata Kesselring, il monumento che pretendi da noi italiani, ma con che
pietra si costruirà a deciderlo tocca a noi. Non coi sassi affumicati dei
borghi inermi straziati dal tuo sterminio,
non colla
terra dei cimiteri dove i nostri compagni giovinetti riposano in serenità,
non colla
neve inviolata delle montagne che per due inverni ti sfidarono,
non colla
primavera di queste valli che ti videro fuggire.
Ma soltanto
col silenzio dei torturati, più duro d'un macigno
soltanto con
la roccia di questo patto giurato fra uomini liberi
che volontari
si adunarono per dignità e non per odio decisi a riscattare
la vergogna e
il terrore del mondo. Su queste strade se vorrai tornare ai nostri posti ci
ritroverai
morti e vivi
collo stesso impegno popolo serrato intorno al monumento
che si chiama
ora e sempre
RESISTENZA."
Quando si
leggono questi versi ("Il monumento") di un poeta e giurista come Piero
Calamandrei (stranamente poco studiato)
si mantiene viva e fiorente la memoria: è necessario. E' utile rinverdire un
ricordo lontano di sofferenza (serve ai giovani, lo si ripete spesso); ma
quanta eredità di quel sangue è oggi ancora pregnante in questo contesto
stracolmo di corruzioni e di malgoverni? Occorre rinverdire la storia. E
occorre una nuova Resistenza e non solo fisica per sopportare quanto di pesante
si è costretti a subire a causa di ataviche pessime gestioni del Bene comune.
Sarà
il caso che prenda piede una ragionevole convinzione collettiva che porti ad
una Liberazione da scorie, o da individui che hanno determinato il "male
comune". Consorterie strabiche che hanno occupato la scena per proprie
convenienze, immemori di quell'evocazione che a Calamandrei proveniva dal
profondo del cuore, da convinzioni di libertà e di umanità mai sopiti. Una
dittatura quantunque "soffice" e populista (come quella recente) è pur sempre
una dittatura. Allora hanno combattuto invano i nostri padri?
Abbiamo "delegato" per troppo tempo in nome
di una democrazia il cui vento soffia sempre alto: se ne sono appropriati
immeritatamente coloro che poi l'hanno umiliata. Da bene collettivo a bene
economico, dove il lavoro rimane una chimera per le nuove generazioni,
precarietà è la parola ricorrente. Tutto è caduco in un sistema onnivoro di
capitali come piovre. La festa della Liberazione cade dunque a ridosso di
quella del Lavoro: dal 25 Aprile al Primo Maggio la distanza sembra breve. Per la Storia, con le sue
coordinate scritte con la sofferenza, rimangono date imprescindibili: per
rifletterci, per meritare Altro. "Libera nos a malo".
Armando
Lostaglio
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