Il passaggio della carovana del giro d’Italia nella nostra cittadina, o meglio nei pressi della nostra cittadina, è stato un “evento” con tutti i crismi dell’eccezionalità. Mai nella storia della corsa rosa Tursi era assunta agli onori della cronaca in modo così diretto. L’orgoglio e la dignità dei cittadini tursitani ha certamente trovato linfa vitale per auto-rinnovarsi, com’è giusto che sia, d’altronde, per un popolo che porta con sé le stimmate plurisecolari di una fierezza campanilistica certamente fuori dal comune. L’impatto mediatico ed iconografico, tra il reale e l’onirico, che le immagini del transito dei “girini” hanno avuto su di un vostro compaesano, distante centinaia di chilometri eppur spiritualmente sempre vicino alle vostre emozioni, al vostro vorticoso senso dell’essere cittadini di una terra che grida senza vergogna al mondo intero la propria diversità, è stato fragoroso. Una diversità che può assumere per alcuni anche i tratti dell’anomalia, insita nell’animo del tursitano, cittadino italiano che denota in maniera prorompente un dna multirazziale e multiculturale perpetuatosi in secoli di storia. Al passaggio della carovana colorata, fra due ali di folla festante, pareva quasi di assistere allo spettacolo grandioso ed al tempo stesso spaventoso di un enorme fiume in piena, un mostro dalle cento teste, un novello Cerbero imponente che pareva chiedesse con forza di essere espulso dal tubo catodico del quale era, forzosamente ed indegnamente, prigioniero. Ho chiuso quindi lentamente gli occhi e mi sono lasciato trasportare dal sogno di un serpentone dai mille colori che fuoriusciva dallo schermo ed invadeva la mia stanza in maniera repentina e con la forza ed intensità di un pugno secco allo stomaco, ancorché piacevole. E insieme ad esso lo schermo vomitava i tursitani tutti, come un sol uomo, che urlavano a squarciagola cercando di alleviare gli sforzi inumani di quei giovani corridori, eppur mitici nelle loro gesta. Pareva che il popolo di Tursi intero sospingesse con il solo fiato su per i calanchi quei ciclisti arrivati dalle parti più disparate dello stivale per portarci un anelito di gioia. Intanto la mia stanza era ormai avvolta dal caldo abbraccio della gente, graditi “occupanti” di quel suolo a me familiare e caro, ma adesso teatro di un messaggio carico di significati. Era infatti come se quell’iride, quell’invasore pacifico della mia cameretta rappresentasse quel cordone ombelicale spezzatosi, o forse soltanto laceratosi, ormai alcuni anni orsono con la mia partenza da Tursi e che adesso era lì, pronto a riprendermi per mano e riportarmi nuovamente fra i miei concittadini. Eccomi quindi rientrare dallo stesso schermo e ritrovarmi in mezzo alla mia gente fra i campi e le colline tursitane, orgoglioso anch’io di accompagnare i ciclisti, di correre con gli altri finché il fiato ci sorregge e ricambiare, con il senso dell’ospitalità che ci è proprio e ci contraddistingue, quello splendido e soffice manto rosa che per un giorno ci ha accolti tutti insieme, uniti, donne, vecchi e bambini, sotto la sua danza protettrice e colorata. E fra i mille colori ne dominava uno, il rosa, che è proprio della donna, e delle nostre mamme e delle nostre nonne, simboli secolari della trasmissione di quei valori appresi fin dall’infanzia e che uniscono generazioni di tursitani così diverse eppure, seppur per un sol giorno, così vicine.
Roberto Calciano
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