La polveriera
nord-africana di S. Cesareo
Il 2011 verrà sicuramente ricordato nei libri di storia come
l'anno della rivolta nord-africana. In questi primi due mesi del nuovo anno,
infatti, Algeria, Tunisia, Egitto e Libia sono stati messi a ferro e fuoco
dalle popolazioni inferocite contro i totalitarismi che hanno oppresso per
decenni le loro vite e i loro territori.
La goccia che ha fatto traboccare il
vaso, e ha mostrato al mondo intero il malessere del continente nero, si è
palesata in Algeria, dove la folla, esasperata dal costo di beni di prima
necessità come pane e latte, ha puntato il dito contro il governo nazionale,
reo di non aver sorvegliato sulla speculazione e sull'innalzamento
ingiustificato dei prezzi. Dopo giorni di scontri nelle campagne e proseguiti poi
sotto i palazzi del potere, tutto l'esecutivo algerino ha dovuto abbandonare in
massa la guida del Paese, che era nelle loro mani da molti anni.
Se per l'Algeria i motivi della ribellione sono quasi
esclusivamente economici, in Tunisia, Egitto e Libia le motivazioni della
rivolta sono principalmente di natura politica. Quasi a macchia d'olio,
infatti, i tumulti della folla si sono estesi lungo la costa africana bagnata
dal Mediterraneo, coinvolgendo a ruota Tunisia ed Egitto. Proprio l'altra ex
colonia francese, governata dal socialista Ben Alì, è stata da subito messa a
soqquadro dalla folla che chiedeva la destituzione del governo. L'amico
fraterno di Bettino Craxi, ha dovuto alzare bandiera bianca dopo che è stato
smascherato un sistema di corruzione senza precedenti, paragonabile con quello
che è emerso nel corso dell'inchiesta "Mani Pulite" del 1992 in Italia. Peccato
che per tutti i reati a lui contestabili, non si potrà mai tenere un processo,
sia perché è latitante ma soprattutto perché, secondo fonti a lui vicine, lo
storico leader tunisino sarebbe stato colto da ictus e verserebbe in coma in un
luogo segreto.
Stessa sorte, manco a dirlo, è toccata al premier egiziano
Mubarak, con la sua destituzione dopo trentatré anni di incontrastato potere.
Il Raìs, da noi famoso più per una sua presunta nipote in Italia che per la sua
vocazione democratica in Egitto, come capo assoluto dello Stato ha gestito con
astuzia e modificato la Costituzione in base alle sue esigenze, ma ha dovuto
abbandonare il suo governo e una nave ormai colata a picco, flagellata da una
corruzione dilagante e da un malessere sociale diffuso. Oggi non è chiaro se
Mubarak, che è dovuto andare in esilio, si trovi in una località europea o
asiatica, oppure all'interno del suo stesso Paese. Emblematico resterà senza
dubbio l'assalto della folla alla sua Ferrari gialla, simbolo della sua potenza
e dell'attaccamento al nostro Paese. Tuttavia, non va dimenticato che egli è
stato per molti anni l'unico interlocutore moderato degli Stati Uniti in un territorio cardine per la lotta al
terrorismo islamico. Forse è stata anche questa posizione di "privilegio" nei
confronti degli Usa a far si che Mubarak potesse governare senza troppe
difficoltà una nazione che pur essendo ricca di risorse di approvvigionamento,
generato dal petrolio e dal turismo, ha il prodotto interno lordo più basso del
continente africano.
Quanto alla Libia, che nel corso della storia ha avuto
maggiori contatti con l'Italia, nel bene o nel male, Mu'Ammar Gheddafi governa
quella nazione da quasi quarantatre anni. Tipico di chi vive nel culto della
propria personalità, il "Colonnello" Gheddafi (ma è di fatto un super generale)
ha innalzato la sua figura fino a renderla quasi venerabile agli occhi della
popolazione. Egli è (stato) il nostro maggiore partner economico, per i suoi
numerosi giacimenti di greggio e gas naturale e con gli investimenti fatti in
Italia. Ciò nonostante, lo stravagante raìs libico si è scoperto tutto a un
tratto profondamente debole a livello politico, anche se stenta a dimettersi e
non esita a reprimere i rivoltosi con l'ausilio dell'esercito fedele.
Ma il Governo Italiano, in tutto questo scenario di
guerriglia, che ruolo gioca? Se l'Unione Europea sta pensando a sanzioni,
soprattutto a limitazioni di import-export con questi paesi, il nostro
esecutivo sostanzialmente ha paura di "disturbare" i dittatori e tentenna ancora, in attesa di concertare
una pur auspicabile azione comune. Forse è troppo impegnato a preparare in
fretta e furia provvedimenti che tutto sommato non servono in maniera così
urgente agli italiani. Rischiamo cosi di subire passivamente l'ondata di
profughi che da queste nazioni si riverserà da noi, mettendo in luce la nostra
fragilità nel gestire certe emergenze. Le coste italiane sono le più vicine e
sarebbe forse il caso di far sentire la nostra voce, non inviando i nostri
soldati in un'altra finta missione di pace, ma attivando un canale diplomatico
serio con i nuovi interlocutori e rappresentanti, mettendo da parte tutto
quello che si è visto e sentito fin ora.
Salvatore Cesareo
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