Gentilissimo Avvocato, mio
marito soffre di un forma di patologia mentale. A causa del suo stato di
malattia e della sua conseguente incapacità di intendere e di volere la
convivenza è divenuta intollerabile, tant'è che ho deciso di chiedere la
separazione. Lo stesso, poi, proprio perché malato, oramai da anni non si cura
della mia persona né dei bisogni della famiglia, rifiuta ogni dialogo, non
lavora e si sottrae ad ogni impegno morale ed economico. Nel caso in cui io
decida di avviare una separazione giudiziale posso ottenere l'addebito della
stessa in capo a mio marito? (La ringrazio, Mirella)
Pregiatissima
Signora, in linea generale, il comportamento posto in essere da Suo marito è
certamente contrario allo spirito solidaristico che permea di sé il vincolo
nuziale e, dunque, sembrerebbe configurare ipotesi tipica di violazione
dell'obbligo di assistenza morale e materiale discendente, in capo ai coniugi,
dall'articolo 143 del codice civile per effetto della celebrazione del
matrimonio.
Pur tuttavia,
da quanto Lei riferisce, le condotte contestate dipendono da uno stato di
malattia mentale e, dunque, da una capacità di discernimento compromessa ciò
che, nel caso, esclude una pronuncia di addebito della separazione. Ed invero, il
comportamento contrario ai doveri che derivano dal matrimonio, per dare luogo
all'addebito, deve essere cosciente e volontario. Dall'affermazione
della necessità di coscienza e volontarietà dell'azione, ne consegue che non
può essere addebitata la separazione al coniuge infermo di mente al quale,
sicuramente, manca la capacità di intendere e volere le condotte poste in
essere in violazione dei doveri matrimoniali.
Questo
principio, in verità, è concordemente riconosciuto dalla dottrina e dalla
giurisprudenza maggioritaria la quale, a più riprese, ha evidenziato come la
pronuncia di addebito postuli, inevitabilmente, una condotta dolosa o colposa
da parte del coniuge nei cui confronti è richiesta. Il concetto
di addebitabilità, infatti, presuppone sempre quello della imputabilità, ossia la
riferibilità degli atti contrari al matrimonio al comportamento volontario di
una persona capace di intendere e di volere.
E'fin
superfluo evidenziare che se l'ammalato grave non onora in modo adeguato i
doveri matrimoniali ciò prescinde da ogni sua volizione consapevole o colpa e,
pertanto, eventuali comportamenti trasgressivi, scaturendo da uno stato di
infermità psichica o fisica, non pongono questioni di addebito. Per ragioni
di completezza, mi preme evidenziarle che, nel caso di coniuge infermo di
mente, il problema dell'addebito riguarda, semmai, l'altro coniuge. Non vi è
dubbio, infatti, che lo stesso, stante quanto previsto dall'articolo 143 del
codice civile, sia tenuto a spendere la dovuta assistenza nei confronti del
coniuge infermo.
Il principio
di solidarietà che, come noto, rappresenta l'elemento fondamentale della vita
matrimoniale gli impone, in questi casi addirittura con intensità ed impegno
maggiori, di prestare all'altro il doveroso soccorso materiale e, ancor di più,
quello morale. Ed in effetti
se è vero, come è vero, che il grave stato di malattia di uno dei coniugi può,
per le sue conseguenze pratiche, devastare l'armonia familiare fino a
comportarne la disgregazione, è altrettanto vero che, proprio nel momento
delicato della malattia, la solidarietà, che costituisce la base essenziale ed
ineludibile del consorzio familiare, dovrebbe spiegare i suoi effetti più
intensi.
Stare accanto
ad una persona malata e fornirle il sostegno morale e materiale di cui ha
bisogno è sicuramente impegnativo, forse defatigante. Di certo,
però, non può affermarsi con serenità che chi l'abbandona rispetti gli obblighi
matrimoniali. Al contrario,
a parere di chi scrive, confortato dall'opinione di autorevoli studiosi sul
punto, il coniuge incapace di resistere a tale impegno, che dovrebbe
dispiegarsi con maggior vigore proprio in ragione del momento obiettivamente
difficoltoso vissuto dall'altro, viola senz'altro il dovere di assistenza
morale.
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