L'Unità d'Italia da Fortunato a
Vancini
Nelle
giornate di celebrazioni dell'Unità d'Italia, appena partite dallo scoglio
garibaldino di Quarto, può apparire fuori dal coro quanto scritto da Giustino
Fortunato in una lettera indirizzata allo storico e politico napoletano
Pasquale Villari, datata 2 settembre 1899. Questo è lo spirito che animava lo
studioso, ma anche il meridionalista e il politico, originario di Rionero: "L'Unità d'Italia è stata,
purtroppo, la nostra rovina economica. Noi eravamo, nel 1860, in floridissime
condizioni per un risveglio economico, sano e profittevole. L'unità ci ha
perduti. E come se questo non bastasse, è provato, contrariamente all'opinione
di tutti, che lo Stato italiano profonde i suoi benefici finanziari nelle
province settentrionali in misura ben maggiore che nelle meridionali."
Se si legge
nelle parole di Fortunato un aspetto puramente
economico, si può rivedere la Storia mediante l'assunto da più parti
acclarato
che, con la nascita dell'Italia Unita, l'attivo di bilancio del Regno
delle Due
Sicilie fu incamerato nelle casse del neonato Stato italiano. Finiranno
così al
Nord (e non solo) somme esorbitanti pari a 443 milioni di moneta
corrente
dell'epoca, mentre le banche degli altri Stati preunitari detenevano un
patrimonio
totale di 148 milioni. Ma non era, quella di Fortunato, una invettiva di
carattere puramente economico.
Profetizzava il divario che l'Unità non avrebbe mai risolto, una
"questione
meridionale" che avrebbe permeato e condizionato la vita politica e
sociale del
Paese.
Nessuna
antinomia dal Fortunato va oggi indotta nell'impegno del
presidente della Repubblica, Napolitano, impegnato su più fronti a
contrastare
spinte secessioniste, incentivando uno spirito di coesione nazionale.
Spirito
che il Presidente aveva riaffermato proprio nel Palazzo Fortunato di
Rionero,
nell'ottobre scorso. Varrebbe la pena, tuttavia, ricordare a quanti la
storia la leggono
opportunisticamente dalla parte "sbagliata", quante risorse ha destinato
il Sud
alla costruzione della nazione. In termini di braccia, di sangue, di
soprusi,
di abbandoni ("o briganti o emigranti"). Brigantaggio ed emigrazione, i
due
cardini drammatici di una storia che vede il Sud teatro di dolore, di
sconfitte
ma anche di passioni.
L'epopea di
Garibaldi, che ha affascinato intere generazioni di
studenti (più alle medie, meno ai licei), continua a rappresentare
tutt'oggi il
nodo della discordia, una rielaborazione che andrebbe invece
contestualizzata
nel tempo storico. L'eroe
dei due mondi - confermano taluni studiosi - era visto dal popolo come
un santo
liberatore. A Palermo era considerato "parente" di Santa Rosa così come a
Napoli
lo divenne di San Gennaro; in una stampa popolare era addirittura
raffigurato
con un gesto benedicente. In un calendario del 1863 era elevato alla
gloria
degli altari, il busto-reliquiario con tanto di aureola posto su un
altare fra
baionette, cannoni e munizioni al posto dei ceri. L'epigrafe era vero
manifesto
dell'anticlericalismo: "figli d'Italia, se asciugar volete / di Venezia e
di
Roma il lungo pianto / poco v'importi se non canta il prete / queste son
le
candele, questo è il santo.
Scriveva
Beniamino Placido che se avessero avuto la meglio i Borboni,
probabilmente Eroe
nazionale sarebbe stato considerato Carmine Crocco, il brigante per
eccellenza;
con i Piemontesi invece lo è diventato Garibaldi. Una equazione
apparentemente
azzardata, ma le vicende postunitarie, rilette nel tempo da letteratura e
cinema, hanno riscritto quello che la storia ufficiale non insegnava.
Florestano
Vancini girò nel 1972 "Bronte - cronaca di un massacro che i libri di
storia
non hanno raccontato". Il film elenca una folta
bibliografia, da Colajanni a Mack Smith, da Romano a Candeloro -
scriveva il
critico Tullio Kezic - sui fatti che si svolsero fra il 3 e il 10 agosto
1860 a
Bronte, un paese sulle falde dell'Etna: la forsennata rivolta delle
plebi
contadine e l'inesorabile repressione che seguì per mano dei garibaldini
di
Nino Bixio. Scrive Renzo Del Carria in Proletari senza rivoluzione: "È
da questo
feroce episodio, inumano nella sua spietata logica di lotta di classe,
con il
suo cosciente terrore contadino prima e reazionario poi, che ha inizio
la
storia delle classi subalterne in Italia". Con il film prodotto dalla
Rai, ma
mai mandato in onda, il regista ferrarese porta sullo schermo una
novella di
Giovanni Verga dal titolo "Libertà". E lo stesso faranno i fratelli
Taviani,
nel 1984, girando "Kaos" che traggono dalle Novelle per un anno di Luigi
Pirandello. Un episodio in particolare, "L'altro figlio", guarda al
passaggio
di Garibaldi dalla Sicilia: Carobbardo, come lo chiama la vecchia
protagonista,
è una creatura eterea, una icona sul suo cavallo bianco che, anziché
restituire
dignità ai contadini, li ignora.
Tanti
libri, dibattiti e documentari hanno alimentato una
riflessione necessaria, ma deve essere un recupero culturale del secolo e
mezzo
alle spalle a riequilibrare gli interessi comuni di una nazione che
sappia far
tesoro della Storia.
Armando
Lostaglio, CineClub
De Sica - Cinit
|