Pasqua, poesia, cronaca e cinema di LOSTAGLIO
<<Cari
amici, come vorrei che il mio augurio, invece che giungervi con le formule
consumate del vocabolario di circostanza, vi arrivasse con una stretta di mano,
con uno sguardo profondo, con un sorriso senza parole!
Come vorrei togliervi
dall'anima, quasi dall'imboccatura di un sepolcro, il macigno che ostruisce la
vostra libertà, che non dà spiragli alla vostra letizia, che blocca la vostra
pace! Posso dirvi però una parola. Sillabandola con lentezza per farvi capire
di quanto amore intendo caricarla: "coraggio"! La Risurrezione di Gesù Cristo,
nostro indistruttibile amore, è il paradigma dei nostri destini. La Risurrezione. Non la distruzione. Non la
catastrofe. Non l'olocausto planetario. Non la fine. Non il precipitare nel nulla. Coraggio, fratelli che siete avviliti,
stanchi, sottomessi ai potenti che abusano di voi.
Coraggio, disoccupati.
Coraggio, giovani senza prospettive, amici che la vita ha costretto ad
accorciare sogni a lungo cullati. Coraggio, gente solitaria, turba dolente e senza volto. Coraggio,
fratelli che il peccato ha intristito, che la debolezza ha infangato, che la
povertà morale ha avvilito. Il Signore è Risorto proprio per dirvi che, di
fronte a chi decide di "amare", non c'è morte che tenga, non c'è tomba che
chiuda, non c'è macigno sepolcrale che non rotoli via. Auguri. La luce e la
speranza allarghino le feritoie della vostra prigione. Vostro
don Tonino Bello, vescovo>>
PASQUA
A festoni la grigia parietaria
come una bimba gracile s'
affaccia
ai muri della casa centenaria.
Il ciel di pioggia è tutto una
minaccia
sul bosco triste, ché lo intrica il rovo
spietatamente, con
tenaci braccia.
Quand'ecco dai pollai sereno e nuovo
il richiamo di
Pasqua empie la terra
con l'antica pia favola dell'ovo.
Guido Gozzano
Viva
la libertà
Il
film è uscito da poco: tratto dal romanzo "Il trono vuoto" che il regista
Roberto Andò aveva dato alle stampe tre anni fa. Ora è un film (in sala in
queste settimane) dal titolo eloquente e probabilmente autoironico: "Viva la
libertà". Un film politico, ovvero l'autore sembra aver fatta propria una delle
lezioni americane di Calvino, in cui definiva la leggerezza un valore anziché
un difetto. Il racconto ci conduce inevitabilmente all'attualità, a questi
giorni, o addirittura in queste ore di "vuoto" del dopo-voto italiano. Eppure
il libro da cui il film è tratto è stato scritto tempo fa.
Sono notevoli i
riferimenti ed i messaggi politici. C'è un immenso Toni Servillo che Andò ha
voluto che interpretasse due ruoli: due fratelli diametralmente diversi. Uno è
il leader di una sinistra al minimo storico, l'altro è stato affetto da
depressione bipolare, e che farà risalire le quotazioni del partito molto in
alto, esprimendosi con semplicità. Fra rimpianti e lampi di speranza, il film
non entra mai in una condizione di banalità. Se la politica è l'elemento
attorno a cui ruota la storia, questa presenta anche altri temi, come l'amore,
l'amicizia; e soprattutto l'aspetto del
"doppio", secondo un canone che rende omaggio al cinema e al teatro.
Andò, pur
definendo il personaggio riflessivo come un "clandestino dell'attualità", ci
direziona in un linguaggio che viene da lontano, dalla nostra letteratura e
ancora più indietro dalla commedia latina, come lo scambio tra gemelli. Toni
Servillo interpreta un politico stanco, fiacco e spaventato di perdere il
potere e, in controcanto, è un filosofo molto particolare che abbraccia la vita
con l'incoscienza di chi non ha niente da perdere. Quando parla alle folle
politicamente deluse (non meno di quelle che votano "contro" per protesta),
sostiene che "la parola che mi è più cara su questo palco non c'è: passione". E
chiude citando Bertold Brecht, con la struggente poesia "A chi esita". Che
recita:
"Dici:
/ per noi va male. Il buio cresce. / Le forze scemano. / Dopo che si è lavorato
tanti anni / noi siamo ora in una condizione / più difficile di quando / si era
appena cominciato. / E il nemico ci sta innanzi / più potente che mai. / Sembra
gli siano cresciute le forze. Ha preso / una apparenza invincibile. / E noi
abbiamo commesso degli errori, / non si può più mentire. / Siamo sempre di
meno. Le nostre parole d'ordine sono confuse. / Una parte / delle nostre parole
/ le ha travolte il nemico fino a renderle / irriconoscibili. / Che cosa è
errato ora, falso, di quel che abbiamo detto? / Qualcosa o tutto ? Su chi /
contiamo ancora? Siamo dei sopravvissuti, respinti / via dalla corrente?
Resteremo indietro, senza / comprendere più nessuno e da nessuno compresi? / O
contare sulla buona sorte? / Questo tu chiedi. Non aspettarti / nessuna risposta
/ oltre la tua."
Armando
Lostaglio
TRENTACINQUE
ANNI DAL RAPIMENTO DI ALDO MORO
Trentacinque
anni, tanti sono passati da quella drammatica mattina: era il 16 marzo del 1978, a Roma in Via Fani
veniva rapito il presidente della DC Aldo Moro, un'azione militare costata la
vita ai suoi cinque agenti di scorta. Si era poco più che ragazzi, in quegli
anni '70, anni che hanno segnato la seconda metà del secolo scorso.
Gambizzazioni ed omicidi politici si seguivano in una spirale impressionante.
Ma quel che accadde in Via Fani toccò di certo la punta più elevata: il
rapimento di Aldo Moro dopo una studiatissima strategia militare messa in atto
dalle Brigate rosse, che non escludeva l'assassinio della scorta: cinque agenti
sacrificati in una strategia del terrore che non aveva eguali.
Quella mattina
la radio e la tv in bianco e nero raccontavano con parole meste e di dolore un
evento terribile; edizioni speciali continuavano a rincorrersi mentre la notizia immediatamente faceva il
giro del mondo. La punta più alta del terrorismo aveva visto il suo apice e,
come sempre accade, il suo declino. Eravamo studenti che seguivano quegli anni
con l'apprensione verso un futuro incerto, sentirsi comunque politicizzati (lo
era la maggioranza di quella generazione) e nel contempo desiderosi che
qualcosa potesse cambiare.
Ma all'annuncio di quella drammatica notizia tutti
ci sentimmo un po' spogli, impreparati forse: l'Immanente stava precipitandoci
addosso, la storia, quella maiuscola, stava accadendo, stava voltando pagina,
forse irrimediabilmente, irreversibilmente. Tutto si consumava in pochi minuti
dentro di noi: i dubbi e le scarse certezze a farsi da contraltare verso un
"qualcosa" di nuovo, di mai pensato prima, nonostante le morti di innocenti che
ne preannunciavano il divenire. Da studenti e da lettori di un tempo strano e
comunque avvincente, ci siamo sentiti avvolti da un vento strano che avrebbe
rivoluzionato il presente e forse il futuro.
Quella strage, quei "processi del
popolo" al Presidente non cambiarono di molto il corso della Storia. Non prese
il finale che molti anni dopo il regista Marco Bellocchio aveva immaginato
sulla tragedia Moro, nel suo bellissimo "Buongiorno, notte" , portato alla
Mostra di Venezia nel 2003 (liberamente ispirato dal libro "Il prigioniero"
della ex brigatista Anna Laura Braghetti). Il Presidente della DC non verrà
liberato, come invece immagina il regista nel tratto finale del film, onirico e
struggente. Verrà ucciso. Morte su morte, in un lampo di Storia che intraprese
altre strade. Una Storia che tendeva a "normalizzarsi" nel divenire.
Armando
Lostaglio
OLTRE
IL GIARDINO
Siamo sempre più spesso attorniati da facce che esprimono disappunto, espongono
opinioni talvolta solo per il gusto di parlare. Qualcuno ha il ghigno del sempre
soddisfatto, comunque vadano le cose. Altri invece ostentano saperi su ogni
cosa, che sia cucina o automobili, persino economia e politica. Quando in tv
compare il viso dal ghigno sereno sotto i baffi del segretario nazionale di un
certo sindacato, l'effigie ci riconduce (come per reincarnazione) ad un film di
oltre trent'anni fa di Hal Ashby, apprezzato a Cannes e premiato con l'Oscar,
dal titolo "Oltre il giardino" (Being There in originale).
Ad interpretarlo è
lo straordinario Peter Sellers in una delle sue ultime apparizioni. Nel film è
Chance, un giardiniere analfabeta che non è mai uscito dalla casa nella quale
ha lavorato per tutta la vita. Alla morte del padrone, si ritroverà senza
lavoro, con una valigia di vecchi abiti di lusso e un disarmante candore.
L'unico collegamento col mondo esterno è stata nel corso di tutti quegli anni
la televisione, mentre del giardino conosce ogni segreto. Ci perdonerà il
citato segretario sindacale (che è pure in buona compagnia) ma il suo apparente
candore, come in Change, rimanda a chi si esprime per concetti ovvi e
predeterminati, conoscendo solo quelli, e facendoli passare per metafore, come
nel film di Ashby. Solo che Change è ignaro della sua semplicità, conosce bene
il suo mestiere e agli occhi della sua nuova padrona sembra che utilizzi le
metafore del giardino per parlare di concetti elevati.
Si nutre di televisione
(qui l'attualità del film) mentre le persone intorno lo fanno passare per un
genio. Così accade per i nostri contemporanei, sindacalisti o politicanti o
ntellettuali presunti. Quanti ne abbiamo mandati al parlamento a
rappresentarci, oppure ad essere classe dirigente, ritenendoli geni come
Change. Sarà pur vero, secondo lo scrittore Robert Musil, che "ogni
intelligenza ha la sua stupidità", mentre per Sciascia "è ormai difficile
incontrare un cretino che non sia intelligente, e viceversa". Oppure siamo noi,
ignari della nostra semplicità, o stupidità, quegli "utili idioti" (non già nel
senso leninista) che fanno arricchire di gloria e di potere personaggi che
nemmeno nel giardino sarebbero in grado di coltivare un fiore?
Armando Lostaglio
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