Un lampo dentro il cuore è il suicidio di un figlio
Riceviamo e
pubblichiamo volentieri questo testo, con profonda adesione al contenuto. Parole
vere e sofferte, misurate e struggenti che potrebbero far intravedere un iniziale
percorso di attesa elaborazione dell'atroce ferita esistenziale.
Il valore
della testimonianza del genitore, infatti, è di tale intensità che lascia comunque
aperta la speranza di poter guardare avanti, sia pure con gradualità. La
rispettabile scelta della mancata firma, che non è indice di richiesta di
anonimato, essendo a noi ben nota la cara persona, è invece una ulteriore
attestazione di intelligenza, pudore e sensibilità che meritano tutta la nostra
considerazione e gratitudine. (s.v.)
La perdita di un figlio è un dolore atroce per ogni
genitore, perché va contro la legge della vita. Nel fluire delle generazioni
sono i vecchi a dover passare il testimone della famiglia ai più giovani, che
vanno incontro al futuro. E perdere un figlio che si suicida può causare un
dolore insostenibile, pervasivo, annichilente. Un dolore contro cui si
smarriscono gli affetti degli altri familiari, contro cui annaspa la fede,
contro cui si arrende ogni frammento residuo di amore per la vita.
Con la morte
di un figlio suicida, muore con un taglio netto, violento e irreparabile non
solo la persona che abbiamo amato, a volte più di noi stessi, ma anche una
parte essenziale di noi e di quello che siamo stati assieme a lui. A volte il
figlio suicida è il più fragile della famiglia, o quello contro cui la vita si
è accanita di più: per malattie, per traumi, per incontri sbagliati, per
infelice destino. Succede spesso che proprio quel figlio sia quello per cui
abbiamo sofferto di più, per cui abbiamo lottato e sperato di più, per cui ci
siamo sacrificati, abbiamo penato e pregato. Ora la sua morte vanifica, o
sembra vanificare, tutto quello che abbiamo fatto per lui e con lui. Tutto si
azzera.
La sua morte ci pone di fronte all'abisso dei sensi di colpa. Ci
tormenta il pensiero di quello che non abbiamo fatto o detto, di quello che non
abbiamo colto o intuito: come ho potuto non accorgermi che era così disperato?
come ho potuto?... Le notti insonni diventano un'autoaccusa continua. I frammenti
dei giorni che affiorano alla memoria ci perseguitano. Ci ritorna in mente "quella"
frase, che sembrava innocua, e ora ci appare del tutto come un progetto di
morte, che allora avremmo potuto ancora riportare sul fronte della vita. Subito
dopo il suicidio il dolore ottenebrante impedisce di pensare, poi, con il
passare dei giorni, è l'assenza a diventare intollerabile. E quando capita che
la mano digiti automaticamente il suo numero di telefono, lo si interrompe con
un lampo al cuore: ma cosa sto facendo, non c'è più. Gesto difficile da
accettare e comprendere perché resta a sua volta lacerato e ferito dalle stesse
domande, dagli stesi sensi di colpa, dalle stesse essenze, dalla stessa
nostalgia.
Di fronte alla morte auto inferta, di fronte alla voragine di dolore
che l'ha determinata, non resta che il silenzio. Un silenzio dolente,
affettuoso e rispettoso, che a capo chino ci riporti a riflettere su ciò che è
essenziale nella vita. E a saper poi confortare, nei fatti e col cuore, chi
nella famiglia dei superstiti oggi si
sente ancora più annichilito e più solo.
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