Gentilissimo Avvocato,
dopo 7 anni di matrimonio, ho
fatto un'amara scoperta: mia moglie mi ha tradito e lo ha fatto con il mio
migliore amico, come quest'ultimo, tra l'altro, mi ha apertamente confessato. A
causa dello scoperto tradimento, concretatosi in una vera e propria relazione
sentimentale tra i due che è tutt'ora in corso, sono precipitato in uno stato
di grave sofferenza psicologica tanto che assumo costantemente psicofarmaci.
Inoltre, a causa della diagnosticatami depressione ho trascurato il mio lavoro
e, oramai, dacché ero una persona benestante, vivo afflitto da pesanti
ristrettezze economiche. Ho già chiesto la separazione con addebito nei
confronti di mia moglie e la causa non è ancora finita. Volevo chiedere a Lei
se è possibile intraprendere un processo anche nei confronti dell'amante di mia
moglie e mio ex migliore amico per ottenere dallo stesso una somma di denaro
per il danno psichico e patrimoniale che, anche per colpa sua, ho dovuto
subire. (Luigi)
Pregiatissimo
Signore, una risposta adeguata alla questione da Lei sottoposta postula un
imprescindibile riferimento alla norma di cui all'articolo 143, II comma, del
codice civile.
In forza di
detta norma, dal matrimonio, per i coniugi, deriva l'obbligo reciproco alla
fedeltà, all'assistenza morale e materiale, alla collaborazione nell'interesse
della famiglia e alla coabitazione.
La pronuncia
di addebito della separazione rappresenta il rimedio generale alla violazione
degli obblighi coniugali anche se, oramai, seppure ancora con delle residuali
incertezze e all'esito di un travagliato percorso giurisprudenziale, sembra
essere acclarato come accanto a tale sanzione conviva anche una forma di
responsabilità civile a carico del coniuge che, con la propria condotta, abbia
gravemente violato gli obblighi derivanti dalla celebrazione del matrimonio con
grave pregiudizio dell'altro.
Ciò premesso e
relativamente alla Sua specifica domanda, devo immediatamente evidenziare come
nel nostro ordinamento non esista alcuna norma che imponga il risarcimento del
danno al terzo che, eventualmente, abbia indotto uno dei coniugi a violare gli
obblighi matrimoniali, come quello di fedeltà.
Il terzo, in
effetti e come è evidente, non ha assunto alcun obbligo ed è ciò che,
sostanzialmente, differenzia la sua posizione da quella dei coniugi i quali,
invece, attraverso la celebrazione del matrimonio, hanno costituito il consortium vitae consapevolmente
accettando di limitare la propria libertà personale.
Il terzo,
quindi, nonostante abbia eventualmente cooperato nella verificazione di un
danno contrario allo spirito ed agli obblighi matrimoniali, secondo chi scrive di
fatto non ha violato alcun dovere giuridico poiché la sua condotta rientra
nell'ambito del legittimo esercizio del suo diritto di libertà, in alcun modo
limitato da un matrimonio altrui.
La posizione
del terzo in materia di responsabilità civile da violazione degli obblighi
matrimoniali è stata efficacemente affrontata soprattutto dalla giurisprudenza
di merito.
Il Tribunale
di Monza, in proposito, con propria pronuncia del 15 marzo 1997, ha
sottolineato come non esista un diritto assoluto relativo alla famiglia e, come
tale, fonte del dovere di astensione di condotte illecite o ingerenti da parte
degli altri.
Ha
evidenziato, ancora, che quelli previsti dalle norme sul codice della famiglia
siano degli obblighi di natura personalissima e che, pertanto, possono essere
violati solo dai coniugi i quali, indipendentemente dal concorso del terzo
nella trasgressione del dovere matrimoniale, sono persone pienamente capaci di
intendere e di volere e, quindi, in grado di autodeterminarsi nelle proprie
scelte.
In base a tali
premesse appare evidente che la configurabilità del terzo nella violazione di
diritti relativi trovi un limite proprio nel principio di autoresponsabilità,
in forza del quale ciascuno è chiamato a rispondere delle proprie azioni poste
in essere e decise in modo libero e responsabile.
A parere di
chi scrive, dunque, e col conforto di autorevole dottrina sul punto, non può
essere giudizialmente sostenuta la responsabilità risarcitoria del terzo che
abbia indotto il coniuge a trasgredire gli impegni dallo stesso assuntisi
attraverso la libera contrazione del vincolo nuziale.
Per ragioni di
completezza, comunque, devo sottolineare come non manchino pronunce
giurisprudenziali, in verità isolate, contrarie ai principi sinora espressi e
da me condivisi.
In
particolare, il Tribunale di Roma, nella propria sentenza del 17 settembre 1988,
ha energicamente sostenuto come il dovere di fedeltà sia un vero e proprio
obbligo privato sancito dalla legge pienamente vincolante e che, così concepito,
la sua violazione possa costituire, nel concorso di determinate circostanze,
anche fonte di responsabilità per danni a carico del terzo.
Nel caso in
esame, infatti, il coniuge tradito richiedeva il risarcimento del danno non già
alla moglie adultera, bensì all'amante di lei.
Nella specie,
più dettagliatamente, l'uomo, titolare di un'avviatissima azienda, era il
destinatario privilegiato delle confessioni di un suo dipendente dal quale, in
occasione di una intima conversazione, scopriva che questi da tempo
intrattenesse una relazione con sua moglie.
Inoltre, e a
riprova della gravità della vicenda, l'uomo appurava pure che gli autori del
tradimento erano cointestatari di un conto corrente e che il continuo e
consistente ricorso a dette risorse era da porsi in diretta relazione con
l'impoverimento progressivo vissuto dall'azienda.
Il marito
tradito, quindi, sulla base di tale quadro, conveniva in giudizio l'istigatore al
tradimento e richiedeva la sua condanna al risarcimento dei danni morali e
patrimoniali patiti a causa della relazione extraconiugale della moglie.
Il Tribunale
adito, dunque, dopo avere, nella citata sentenza, brevemente tratteggiato la
tematica dell'induzione all'inadempimento, evidenziava come i principi generali
di tale induzione potessero senza difficoltà trovare applicazione nel campo
degli obblighi derivanti dal matrimonio, con particolare riguardo a quello di
fedeltà.
Stando al
ragionamento adottato dal Tribunale di Roma, così come si apprende dalla
sentenza, è indubbio che chi induce o istiga il coniuge ad avere con sé una
relazione adulterina in danno dell'altro coniuge, contribuisca, con la propria
condotta, a produrre il fatto lesivo dell'obbligo di fedeltà, concorrendo nella
conseguente violazione.
Secondo il
Tribunale di Roma, dunque, in un siffatto contesto il comportamento del terzo
può qualificarsi come ingiusto ed integra, se doloso o colposo e causativo di
danno, la figura dell'illecito aquiliano con conseguente obbligo risarcitorio a
carico del terzo che abbia leso interessi che nel nostro ordinamento sono
ritenuti meritevoli di protezione giuridica.
Avv. Luciano Natale Vinci
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