Tursi - Personalità dello spettacolo intelligente, sensibile e di cultura, Franz Weisz, 65 anni compiuti, è sicuramente il più “italiano” dei cineasti olandesi, oltre che importante, versatile e complessa figura di artista. Talento e qualità che si impongono all’attenzione dello spettatore con immediatezza, se solo si ha la possibilità di visionare le sue molteplici opere cinematografiche, televisive e teatrali, poco meno di una cinquantina in totale, includendo anche quelle del periodo giovanile (discorso a parte per una abbondante serie di spot pubblicitari). Tale auspicabile esperienza è tuttavia improbabile, poiché molti suoi lavori, pur disponibili in video-vhs e dvd, e non sempre in versione sottotitolata almeno in lingua inglese, sono assenti dai cataloghi nostrani, considerando i noti limiti della distribuzione di film stranieri e della censura del mercato in generale. Tanto più se provenienti dalle cosiddette cinematografie minori, e quella del Paese dei Tulipani certamente lo è, ma solo nel dato statistico, non certo nella vivacità culturale, negli aspetti tecnici e nella proposizione di contenuti originali. Mai banali o volgari, è bene affermarlo subito, e, anzi, sempre avvincenti e stimolanti, le realizzazioni di Weisz sono caratterizzate da personaggi dalla sofferta quanto ironica psicologia, resa con il pudore dell’erotismo e il riscatto dalla necessitata violenza realistica in primo piano, pure quando si inscrivono nell’ambito dei generi consolidati, come il comico, il thriller e il “polizziottesco”, quelli di impianto teatrale e della ricostruzione storica, tutti interpuntati da notevoli colonne sonore. Le sue opere migliori, tuttavia, appartengono alla “melan-comedy”, con l’esaltazione sincera di robusti sentimenti legati alla memoria e alle opportunità della vita, colte o rifiutate dagli stessi protagonisti, spesso inseriti nel caratteristico scenario di Amsterdam ( la città è ripresa con struggente affetto e vivacità, quasi un film collages geografico-urbano nei diversi film). Tutti, comunque, sono di pregevole tecnica, raffinata scrittura filmica ed eleganza formale, essendo sostenuti da buon ritmo, parecchi con originari testi-dialoghi letterari, ottimamente recitati e pluripremiati in patria. Dopo aver iniziato a studiare recitazione, il giovane Weisz, ha svolto a Roma la sua completa formazione. Qui ha consolidato i duraturi rapporti che hanno fortificato il solido legame affettivo e intellettuale mai interrottosi con l’Italia, frequentando amichevolmente i set “dei grandi geni del cinema italiano: Pasolini, Visconti, Fellini”, e, infine, diplomandosi in regia al Centro sperimentale di Cinematografia nel 1962 (con il corto “Ping pong e poi ... “). Risalgono, inoltre, a quegli anni la grande amicizia, tra gli altri, con Silvano Agosti, le collaborazioni, come aiuto-regista, con Marco Bellocchio e Luciano Emmer, e il debutto da regista nel film a episodi “Gli eroi di ieri, oggi, domani” (1964), con Paolo Graziosi. Sempre con apporti italiani, realizza l’inquieto e da noi sconosciuto “Het Gangstermeisje, (La ragazza gangster, 1966), con Gian Maria Volontè, presentato al Festival di Berlino, seguìto dal suo capolavoro presentato a Venezia “Charlotte” (id./Charlotte S., 1980), rievocazione della breve vita della pittrice C. Salomon, coprodotto da Rai e Bbc, e lo sfortunato dramma sentimentale “Een Vroux van het noorden, 1999” (in Italia: Una donna del nord, 2002), con Massimo Ghini, Alessandro Haber e Pamela Villoresi. Dunque, pur avendo vissuto e lavorato parecchio in Italia, conoscendo benissimo la nostra lingua, Weisz è in assoluto una scoperta per il pubblico e la stessa critica. Ancor più meritoria appare, perciò, la scelta di Franco Rina, direttore artistico della Rassegna “CinemadaMare”, che lo ha voluto come ospite d’onore straniero della manifestazione di quest’anno, aperta proprio ai giovani dei Paesi Bassi. Anche la non facile biografia di F.W. è di quelle, però, che colpiscono profondamente l’immaginazione, potendola quasi assimilare a un copione cinematografico drammatico, per fortuna a lieto fine. Il padre, infatti, era un brillante attore tedesco di teatro e cabaret, con qualche presenza di rilievo nel cinema, nato nel 1904 a Budapest, ma di origini ebraico-ungheresi. Lasciata la famiglia a Berlino nel 1933, con altri colleghi teatranti fugge in Olanda, dove decide di fermarsi dopo aver conosciuto la compagna della vita. Continua a recitare, ma viene tradito dai collaborazionisti e arrestato nel 1939, seguìto dalla moglie, che aveva fatto in tempo a nascondere presso fidate persone il piccolo Frans, nato l’anno prima nella capitale olandese, esattamente il 23 luglio1938. Entrambi i coniugi finiscono nel lager di Auschwitz, dove il padre morirà presto. Dopo anni di terribili stenti, alla liberazione la madre ritorna a casa e riabbraccia il figlio ormai cresciuto. I due vivono il futuro praticamente soli, poiché, terminata la guerra, sono almeno quaranta i propri familiari sterminati. “Un triste primato che nessuno oserà mai invidiarmi”, dirà Weisz, con scioccante e amara ironia. La normale elaborazione esistenziale degli orribili eventi, avvicina il giovane tanto all’esperienza paterna e dello zio “americano” con gli Oscar, Karl Freund, direttore della fotografia tra i massimi di sempre nella storia del cinema mondiale, quanto all’impegno nella recitazione, anche se l’Accademia di Amsterdam gli impedisce di proseguire i corsi. “Per mancanza di phisique du rol, poichè la statura fisica era considerato fondamentale valore aggiunto per l’attore, ovvero la parte naturale del talento, e Dustin Hoffman e Al Pacino non erano ancora arrivati”, ricorda, “Per questo, da allora, non ci sono più ritornato”. Poi matura la decisione del viaggio formativo, con la permanenza in Italia. Il sereno e maturo Weisz è oggi un affermato regista, sceneggiatore e attore, a dispetto di tutto tra i grandi del cinema olandese e straordinario direttore di attori e attrici, capace come pochi di ricavare il massimo dai propri interpreti, non a caso molto spesso vincitori di premi come protagonisti. L’unico figlio diciassettenne è già un fikmaker, che ama recitare. Da oltre quattro decenni Weisz è, dunque, sulla scena, utilizzando tecniche e formati diversi per realizzare corto metraggi di valore, come “Een Zondag op het eiland van de Grande Jatte” (t.l.: Una domenica sull’isola di Grande Jatte,1964), “Made in Paradise” (1968), “Entrèe Brussels” (1978), e “Cranky Box” (1993), e film tv lunghissimi: “Bij nader inzien” (t.l.: Il grande freddo,1991), serie di sei ore, “Op afbetaling” (t.l.: Il tradito, 1992), di 180’, e “The Successor” (1997), di 200‘ in 4 episodi. Da alcuni anni è impegnato molto anche in apprezzati lavori teatrali, tutti con dispiegamento di ottime musiche e coreografie: “Python” (2000), “Grace, the musical” (2001), “That’s Life” (2002), ma con ascendenze che rimandano a certo Shakespeare, prima di ogni altro, a Checov, O’Neil e Virginia Wolf. Tuttavia, è il cinema che gli ha dato i maggiori riconoscimenti, e soprattutto la vivace commedia, con i toni misurati, l’impianto corale e la potenza evocativa dei dialoghi, nel solco dei citati maestri italiani e di Fassbinder, Ophuls, Lubistch, Truffaut. Certo è stato ottimamente assecondato da un gruppo di collaboratori di primaria grandezza, tra i quali: Robby Muller e Goert Giltay, direttori della fotografia; Theo Nijland e Ruud Bos, autori delle colonne sonore; il produttore e sceneggiatore Rob du Mée; gli attori Pierre Bokma, Kitty Courbois e il grande Rijk de Gooyer; Ton Ruys, montatore; lo scenografo Ben van Os. Oltre al citato “Charlotte”, ci sono parecchi film di notevole costruzione narrativa, di avvincente sviluppo drammaturgico e di elevato livello tecnico. Ne ricordiamo alcuni. “Naakt over de schutting” (t.l.: Nuda dietro la siepe, 1973); “Rooie Sein” (t.l. La ragazza dai capelli rossi, 1975), presentato a Mosca e ambientato a Rotterdam, dal 1912 alle soglie della guerra, seguendo le vicende di una cantante-ballerina di talento che rinuncia a proseguire la carriera, essendo stata abbandonata dal suo compagno. “Havinck” (1987), presentato a Cannes, illustra con acume psicologico l’elaborazione del lutto di una figlia adolescente, dopo il suicidio della mamma, mentre si chiariscono e si ritrovano i rapporti con il padre. “Leedvermaak / Polonaise” (1989, t.l.: Il piacere della sofferenza), premiatissimo e designato nella candidatura all’Oscar, con il seguito “Rijgdraad / Qui vive” (2001), entrambi ottimamente recitati dagli stessi attori-personaggi a distanza di anni (è prevista la terza parte nel 2005), riuniti in una famiglia della media borghesia e intenti a confrontarsi su vittorie e sconfitte originate nel passato, dal dopoguerra in poi. “Hoogste tijd / Last Call” (1995, t.l.: Ultima chiamata, per chi è di scena), storia di un’ultima rappresentazione teatrale, da parte di un ex grande attore collaborazionista, anni dopo incapace di ribellarsi a un regista d’avanguardia. Insomma, sembra proprio che la prestigiosa carriera del valoroso e abbastanza prolifico Frans Weisz, lungi dall’adagiarsi sugli allori, possa riservarci ancora piacevoli sorprese. Salvatore Verde
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