Tursi - Dopo aver accettato l’invito di Franco Rina, per questa estate, alla Rassegna “CinemadaMare”, il talentoso e simpatico regista olandese Franz Weisz ci ha risposto con immediatezza e in perfetto italiano, per un inedita presentazione ai nostri lettori. Quando e come ha pensato di fare cinema? “Uno zio ha vinto l’Oscar come direttore della fotografia, ma da giovane volevo diventare attore, e qualche volta mi sono prestato (“Als in een roes…/Intoxicated, 1986; “Aah… Tamara”, 1965; “Jongens, jongens wat een meid”, 1965). Poi ho preferito dirigerli, con esiti, mi dicono, apprezzabili”. Quasi naturale che nella maturità affrontasse anche il teatro. “Si, ma noi viviamo un paradosso: non abbiamo un grande teatro, non esistendo quasi la letteratura drammaturgica teatrale, in compenso ci sono tanti bravissimi attori. Sono, però, almeno tre le sfide teatrali sulle quali ogni grande artista dovrebbe cimentare il suo genio: Il Gabbiano, L’Amleto e Virginia Wolf”. I suoi riferimenti culturali? “Certo Shakespeare, prima di ogni altro, e Checov, O’Neil; nel cinema: Max Ophuls, Ernst Lubistch e Rainer Werner Fassbinder, insieme con gli italiani Fellini, Pasolini, Visconti, ma anche De Sica, Scola, Amelio e Leone con le musiche di Ennio Morricone. Sono tutti autori di opere di rara bellezza, struggente emozione e vita intellettuale degna”. E’ raro trovare un cineasta che sia sinceramente estimatore di tanti suoi colleghi. “Nel nostro mestiere è difficile l’altruismo e il senso vero del riconoscimento dell’arte, ma bisogna ammetterlo, anche se ci costa fatica. Dominare l’invidia del genio creativo è un passo necessario per confrontarsi artisticamente. Quando ho visto alcuni film grandi e geniali sono fuggito dalla sala di proiezione, per ammirazione verso l’autore, talvolta ho pianto ed ho pensato: questo film avrei voluto avere la capacità di farlo io. Si, ci sono grandi autori e storie anche oggi, come il vostro Marco Tullio Giordana e ‘La meglio Gioventù’, per vedere il quale qui si fa la fila”. A parte l’ottima tradizione documentaristica e singoli film famosissimi, che tipo di produzione emerge nella patria di Van Gogh? “A noi Olandesi è mancato il senso della tragedia collettiva, che ci accomunasse nei sentimenti e ci fortificasse nell’inconscio collettivo. Siamo più osservatori, forse è per questo che sopravvive il documentario. Noi non abbiamo avuto un caso Moro o un intellettuale come Pasolini. Abbiamo il mare e il cielo basso, come dire: con l’orizzonte vicino, è difficile guardare lontano. Ma a volte meritiamo anche l’Oscar”. Cosa significa fare il regista? “Dirigere un film ha una connotazione che richiama etimologicamente il ‘gioco’, e la mentalità italiana più di altre le si avvicina, per questo il set lo considero una sorta di caos da ordinare convivendoci”. Anche suo figlio farà cinema? Ripensando alla sua dignitosa carriera, glielo consiglierebbe? ”Non so. La vita è troppo breve per godermi anche tutto il mio passato. Perciò ogni cinque anni dono tutto il materiale da me accumulato al Museo del cinema olandese”. Cosa non ha facilitato la sua riconoscibilità autoriale? “A parte i corti e un pugno di film che ho scritto (“A Gangstergirl”, 1966; “Charlotte”, 1980; “Abel”, 1986; “Voyeur”, 1991), alterno e richiedo la collaborazione di valenti sceneggiatori. Poi, il mio è un cinema di genere particolare, ‘melancomedy’ direi, anche quando è più scopertamente drammatico”. Adesso sta lavorando? “Sto preparando l’ultimo film, nelle sale il prossimo anno, della trilogia che comprende ”Rijgdraad (2001) e “Leedvermaak” (1989), naturalmente con gli stessi attori, invecchiati”. Ha trascorso diversi anni da noi, che ricordo conserva? “Da giovane, ho lavorato due volte come aiuto regista di Marco Bellocchio e una con Silvano Agosti, proprio nella vostra grande scuola romana di cinema, e poi con Luciano Emmer nel film ‘La ragazza in vetrina’. Ma sono innumerevoli i set che ho frequentato amichevolmente: quelli di Visconti, Fellini, Pasolini, dei quali credo la cinematografia mondiale avverta la loro geniale mancanza, inoltre, a me personalmente manca molto proprio l’Italia”. Salvatore Verde
|