Nova Siri - Nella serata di lunedì che “CinemadaMare” ha voluto dedicare al grande poeta Albino Pierro (1916-1995), per anni candidato al premio Nobel, si eleva la performance del bravissimo Antonio Petrocelli, 51 anni, noto attore lucano di cinema, teatro e televisione, nativo di Montalbano Jonico, dove tuttora risiedono i familiari. Egli si è misurato con la ritmicità e la sonorità linguistiche, oltre che con il senso evocativo antico, profondo e ancestrale dei versi dialettali, letti in piazza davanti ad un pubblico prevedibilmente numeroso, attento e partecipe. Conoscitore del poeta e sovente impegnatosi in analoghe avventure interpretative, proprio per tali ragioni il direttore Franco Rina lo ha invitato. Su questo aspetto specifico lo abbiamo ascoltato. D. Che rapporto ha avuto con Pierro? Poco più che ventenne, mi capitò tra le mani “Curtelle a lu sòue” (Coltelli al sole) e fu una folgorazione. Nel mio dialetto avevo già tradotto il “Canto di un pastore errante per le vie dell’Asia” e scritto il monologo “Tropico di Matera”, e pensavo di essere un giovane solitario nel panorama teatrale italiano, perché recitavo in una lingua praticamente sconosciuta. Dopo uno spettacolo, rispondendo alla “Gazzetta”, dissi che mi avrebbe interessato molto in futuro una commedia o un dramma scritti dal grande Pierro, e Lui lo venne a sapere. Poi, nel locale dell’Associazione romana dei Lucani, ho letto alcune liriche tratte da “Metaponto”, e lì ci incontrammo. Non pensavo fosse in sala. Mi regalò “Si po’ nu jurne” (Se poi un giorno), apparendo subito puntiglioso e solitario, oltre che di una tristezza devastante. Ci ritrovammo ancora, talvolta sentendoci telefonicamente. Penso che fosse molto solo, anche rispetto alla contemporaneità del suo paese. Diede dei consigli? Si certamente, ma non mi sono mai preoccupato del “purismo”. Sento invece di dover arrivare al cuore del poeta, e di restituirlo, questo si. Ma un giorno ritornerò a sciacquare i panni in Rabatana, per avere la pronuncia perfetta. Anche perché tra amici spesso capita, come in alcuni eventi in Basilicata, o sollecitato dalle associazioni, pur se “non porta pane”, di riproporre sovente “I ‘nnammurète” (Gli innamorati). Cosa rappresenta per un attore la sua poesia? Molte cose insieme: modello di scrittura, fonte rigeneratrice, assonanze fonetiche, capacità di sintesi strepitosa, con i suoi incipit ineguagliabili. E poi l’utilizzazione di parole comuni trasformate da lampi geniali, come l’argilla in diamanti. Lui ha praticato il sublime altissimo della poesia. Conosce i luoghi “pierriani”? A Tursi ci vengo eccome, ma sono attratto dalla struttura mentale del poeta, dalla sua capacità alchemica di ricreare immagini e significati nuovi, ascoltando i versi si ama la sua poesia e ti ritrovi a dire che parla anche di me, oltre che a me. Dopo averlo coltivato mentalmente, mi capita da un po’ di tempo di pensare in dialetto, soprattutto dopo aver letto in italiano. L’esperienza mi ha segnato, tanto che ho appena fatto una traduzione letterale del Ruzzante-Angelo Beolco, dal ‘500 padovano in lucano. La piazza tursitana le da una particolare emozione? Si, ma non per Pierro, che amo visceralmente e che conosco bene, ripeto, ma per l’insicurezza teatrale, che sempre assale l’attore prima di salire in palcoscenico, con la particolarità di questo evento e con i naturali “disturbi”, spero trasformati dalla magia in poesia. Salvatore Verde
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