Il racconto di don Peppino Labanca e mons. Roco Talucci sull'incendio della Cattedrale, con molti particolari inediti
"Come primo e unico testimone
dei fatti, provo una forte emozione, e confesso che non so se ridere o piangere
mentre vi rivelo, per la prima volta e solo adesso dopo tanti anni, quello che
è veramente accaduto la notte dei due incendi che hanno distrutto la Cattedrale,
lasciandomi in qualche modo miracolato".
Lo ha detto don Peppino Labanca, per
27 anni parroco della più grande chiesa di Tursi, e lo era anche quando fu
distrutta dal doppio incendio sviluppatosi nella notte tra l'8-9 e poi tra il
10-11 novembre 1988. L'opportunità di sentire i diretti testimoni è stata
fornita la sera di venerdì 29 novembre, nella sala conferenze "Benedetto XVI", dalla
Diocesi di Tursi-Lagonegro. Che ha organizzato, assieme alla Parrocchia
Cattedrale Maria SS. Annunziata e con la collaborazione delle Acli di Tursi, un
incontro con i testimoni del drammatico fatto di cronaca, per "fare memoria del
doloroso evento - ha scritto la comunità sacerdotale -, per ricordare e per
ringraziare Dio del cammino che abbiamo fatto e di come ora si presenta ai
nostri occhi la Cattedrale".
Don Peppino, oggi è a Valsinni (dopo l'esperienza
di cappellano nell'ospedale di Policoro), ha proseguito, suscitando dapprima la
incuriosita e poi crescente partecipazione del pubblico, tra i quali diversi
giovani: "Alloggiavo nella sacrestia, quando fui svegliato verso le ore tre da
un tursitano che, come tanti, si recava fuori del paese a vendere le arance, e
gridava ‘Don Peppì, la chiesa è in fiamme', mentre bussava con insistenza alla
porta.
Uscii immediatamente, il fuoco era al piano superiore, diedi l'allarme e
i pompieri arrivarono diciamo non presto. Ma qui comincia il bello, cioè il
brutto. Non si trovava un bocchettone per l'acqua, si è andati poi dietro la
chiesa (nei locali dell'attuale oratorio), ma i tubi facevano acqua da tutte le
parti, nel senso letterale, la perdevano in abbondanza, spruzzando dappertutto,
e non si riusciva ad ottenere la pressione necessaria.
Per riempire l'autobotte
vuota hanno dovuto recarsi fino alla fontana di Ponte Masone, in località
Giardini. E intanto il tetto bruciava, tutto. Comunque sia le operazioni di
spegnimento sono andate avanti fino alle 16 circa del 9 dicembre, quando i
vigili del fuoco ci hanno riferito con modi abbastanza perentori che dovevano
rientrare".
Ma dalle angosciate parole del parroco, il progressivo scadimento deve
ancora arrivare, se è consentito ironizzare su un dramma collettivo, vissuto ed
esorcizzato dall'intera comunità. Amara narrazione confermata poi nell'essenza da
mons. Rocco Talucci, arcivescovo emerito di Brindisi-Ostuni, all'epoca vescovo soltanto
da pochi mesi: "Tursi è stata la mia prima sede vescovile. Abitavo
nell'episcopio adiacente e accorsi subito. Il ricordo è di profonda tristezza per
quelle notti. Per il popolo tursitano fu un colpo al cuore e tutta la diocesi
avvertiva la sofferenza che c'era per una catastrofe che andava anche oltre la
struttura.
Dubbi sul primo spegnimento ne avevamo eccome. Tutto è doloroso, ma
la caduta del massiccio portone d'ingresso è qualcosa che turba in profondità. L'immagine
chiave che ho di quelle notti è quella di una grande nave in fiamme e noi tutti
lì, inermi, ad assistere a quel disastro. Però, nonostante le difficoltà, la
fede non è andata distrutta e con grandi sacrifici non abbiamo mai fatto
mancare la presenza di Cristo tra noi".
Sul palco, con i due graditi ospiti e testimoni del triste evento, mons. Francescantonio Nolè, da
tredici anni vescovo della diocesi di Tursi-Lagonegro, successore di mons.
Talucci, e l'attuale parroco della cattedrale dell'Annunziata don Battista Di
Santo (tutti insieme hanno prima concelebrato la messa proprio nella ritrovata
Cattderale, con don Giovanni Lippolis e il giovane don Giovanni Messuti).
Sempre
l'indimenticato don Peppino ha proseguito il suo racconto, non privo di sofferta
e amara lievità rassegnata, per i tanti increduli tursitani ormai frastornati
dall'ascolto: "Non volevamo rassegnarci all'impotenza, alla notizia
dell'abbandono dei pompieri del luogo delle operazioni. Qualcosa non quadrava. Comunque,
abbiamo manifestato sconcerto e disapprovazione per quella decisione, che ci
appariva (ed era) strana e assurda, anche perché era di tutta evidenza la
persistenza del fumo che si levava ancora abbondante dai pochi resti del tetto.
Ma la chiesa era intatta, salva. Invece, esattamente 48 ore dopo, il ritorno
delle fiamme improvvise, ma non impreviste, possiamo dire a questo punto, hanno
completato l'opera, con un furore devastante e irreparabile. Il fuoco, mai del
tutto spento davvero, aveva continuato a covare probabilmente nelle travi
secolari di legno stagionato, come abbiamo tentato invano di far capire, ma noi
non eravamo ‘tecnici'. Anzi, loro ci avevano rassicurati che non ci sarebbero
stati problemi.
Infatti, tutto è crollato, ogni cosa ridotto in polvere e
macerie. Rivetti la notizia dopo la mezzanotte, ero incredulo. Mi precipitai,
la scena che vidi mi lasciò attonito, ed è rimasta impressa in modo indelebile:
fumo denso che lasciava intravedere ben poco e travi ardenti che venivano giù. I
vigili del fuoco stavolta arrivarono prestissimo e continuarono il lavoro per
un giornata, ma ormai era tutto inutile, solo le mura erano rimaste in piedi. Nella
sacrestia era conservato l'archivio storico della chiesa e della stessa antica
diocesi. Io personalmente ho perduto il mio primo calice e la mia prima veste.
Si, lì ho perso tutto, ma abbiamo perso tutti. Poi la ricostruzione, e questa è
storia di altri che più e meglio di me posono raccontare".
In effetti, il
generale imbarazzo era palpabile nella rimodernata sala dell'ex cinema
parrocchiale, traeva origine probabilmente anche nella serie di polemiche che si
scatenò in quei giorni, perciò non del tutto ingiustificate. Lo capiamo oggi, complice
la nostra sollecitazione diretta circa le cause, le indagini e le
responsabilità.
Un senso di vago disagio che aveva preso gli astanti silenziosi,
prontamente risolto dal convincente eloquio di mons. Talucci: "Lo abbiamo
riferito nel passato, le fiamme si sono sprigionate nel piano alto da un corto
circuito, presumibilmente da vecchi cavi elettrici che erano presenti in
sacrestia, il cui impianto era da ristrutturare, come avevamo già chiesto (non
a caso è stato successivamente ammodernato l'episcopio, compresa
l'impiantistica). L'incendio del tetto di legno, successivo, è da attribuirsi al
fuoco annidatosi nelle travi e poi esploso rapidamente".
Con l'abituale
franchezza, mons. Nolè ha giustamente parlato di esiti fumosi delle indagini:
"La condanna giudiziaria, ma ufficialmente nulla si è saputo, è diversa dalla
colpevolezza morale, e quest'ultima è fuor di dubbio accertata, come abbiamo
appena ascoltato, per dolo, negligenza o
altro. Ma la rinnovata fede e il sentimento di attaccamento del popolo
tursitano e di tutta la diocesi di Tursi-Lagonegro hanno fatto risorgere quel
luogo che adesso apprezziamo anche nei dettagli.Perché se prima è intervenuto
il Provveditorato alle opere pubbliche, in secondo tempo c'è stato
l'interessamento della Soprintendenza ai Beni artistici e culturali, con il
finanziamento delle istituzione regionale e l'utilizzo dell'Otto per mille
della Chiesa".
Ci sono voluti più di dieci anni per riaprire la cattedrale al
culto dei fedeli e altrettanti per ridonarle un certo splendore, che adesso si
ammira, dal portone agli arredi acquistati e donati, dal nuovo organo (offerto
da mons. Francescantonio Cuccarese, tursitano, arcivescovo emerito di Pescara
Penne) alle opere d'arte sacra di Luciano Longo e Vincenzo D'Acunzo.
Quella dei
"25 anni dopo l'incendio della Cattedrale", così il titolo, è stata una piacevole
rievocazione incorniciata da due proiezioni di video amatoriali, foto e riprese
documentarie e di montaggio, assemblate dal filmmaker tursitano Nicola Crispino
(opportuna anche la sua citazione del collega giornalista Piero Mazzei, docente
nell'Itcg "M. Capitolo" e corrispondente di zona della Gazzetta del
Mezzogiorno, per anni sensibile narratore anche dei fatti tursitani).
Serata in
qualche modo celebrativa, dunque, che ha riservato conferme, com'era nelle
aspettative, e anche alcuni sorprendenti chiarimenti. Pure, una occasione serena
e di gioia, per ritrovarsi con don Peppino, successivamente trasferito proprio
da mons. Talucci, per apprezzare il recupero del luogo di culto diocesano, ormai
quasi completato, e per riaffermare la forza del messaggio salvifico della
Chiesa locale, come ha esortato don Battista in apertura:
"L'evento a cui è
stata soggetta la nostra Cattedrale è il paradigma della nostra vita: nascita,
vita, morte e resurrezione. In tutto ciò, da buoni cristiani, dobbiamo saper
vedere la vicinanza di Dio e la sua grande mano. Ci sono voluti diciotto anni,
nel 2006, per restituirla integra nella sua totalità, dopo anni di cantiere
aperto all'interno, proprio per stimolare e accelerare il completamento".
Si chiude così quella gelida ferita, simbolica
e reale, oramai consegnata soltanto alla memoria della comunità tursitana e
alle cronache del passato, che non si vorrebbe mai più dover raccontare.
Salvatore Verde
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