La Rabatana è stata la prima contrada di Tursi, ritengo concepita e costruita come un enorme castello, proprio intorno al grande e fortificato maniero. Dunque, dalla perduta origine forse gotica e dai resti strutturali di civiltà arabo-musulmana, ormai mimetizzati da stratificazioni e insediamenti successivi, lo storico rione conservava solo i miseri resti di un torrione dell’ampio fortilizio, ormai “diruto” alla fine del ‘700, un tempo inespugnabile come pochissimi altri nell’intera regione. Dalla sommità della collina, infatti, si dominano le valli fluviali dell’Agri e del Sinni, con la foce e l’arco dell’alto Jonio, mentre sono ben visibili undici paesi circostanti (e nelle giornate limpide anche Taranto, rischiarata dai bagliori dell’illuminazione nell’oscurità delle attuali notti). Ma la Rabatana si fa apprezzare ancora per la struttura architettonica difensiva (che solo qui sembra manifestare la tipologia originaria, nel raffronto con il sottostante centro storico), di chiara impronta saracena, con strettoie, un diffuso sistema grottale interno alle abitazioni, cunicoli, gli archi a “crociera” (detti anche “a schiena d’asino” o “volte a vela”). Case e palazzi furono edificati praticamente in continuità e, presumibilmente, tra loro comunicanti, con finestre sovrastanti gli usci e feritoie laterali, per poter guardare agevolmente e senza essere visti dall’esterno. Ripide viuzze d’accesso erano state realizzate solo all’esterno dell’intero caseggiato, mentre sbarramenti progressivi, in forma concentrica e a salire verso la sommità collinare, con portoni rinforzati nelle strette e scoscese strade, realizzavano un sistema di protezione a prova di sfondamento. Ogni vicolo, simile a corridoi interni, proseguiva necessariamente sotto una serie di arcate, sovrastate da costruzioni abitate nell’unico piano rialzato, di sicuro per consentire controlli e interventi anche dall’alto e per eludere improbabili attacchi, minacce ed effetti a sorpresa. Nel tempo, però, soprattutto a causa di inarrestabili frane, più che di terremoti, la Rabatana cominciò a perdere la sua originaria rilevanza socio-economica, pur essendo affollato in maniera più o meno costante (fino agli anni Settanta del Novecento) da oltre un migliaio di abitanti (difficile ipotizzare un numero di molto maggiore ai tremila, considerata la passata estensione del terreno disponibile per le limitate costruzioni e le ricavate poche abitazioni). Il borgo mantenne la caratteristica di essere riccamente presidiato dai maggiorenti del paese, i quali vivevano contornati da una moltitudine di lavoranti, nei loro straordinari palazzi superbamente nobiliari eppure privi di sfarzo esteriore, come quelli dei Sanseverino, Donnaperna, Cucari, Labriola, Picolla-Ferrauto, Siderio, Vozzi. Inoltre, si può ammirare la ristrutturata chiesa di Santa Maria Maggiore (del X secolo, ad opera dei monaci Basiliani), che non fu mai Cattedrale, ma venne elevata in Collegiata da papa Paolo III con Bolla del 26 marzo 1546. In essa si conservano numerose opere d’arte: il portale d’ingresso del ‘400, un Crocifisso (fine XV se.) e gli angeli lignei, con un’acquasantiera in pietra del XVI secolo, ed un Trittico del XIV sec. (dopo decenni di restauro, il dipinto su tavola è stato recentemente restituito e adesso ricollocato sopra l’altarino laterale di sinistra), attribuito ad allievi di Giotto, probabilmente della sua scuola napoletana (si percepisce benissimo un accenno di prospettiva nascente nella raffigurazione principale del trono), con al centro la Madonna che con un braccio sorregge il Bambino sul trono e, ai lati, sei scene bibliche della vita di Gesù, con Giovanni Battista e la Maddalena; vi si trova pur un sarcofago marmoreo, con il fregio di San Giorgio, appartenuto ai nobili De Giorgiis, si ritiene originari di Anglona (passato non si sa bene come ai Doria, forse impossessandosene). I quali, consapevoli della prossima estinzione familiare, con la morte del giovane figlio Pietrantonio DE GEORGIIS, chiesero ed ottennero di trasformare i sottostanti locali della cripta in cappella funeraria, facendo affrescare i locali, raffiguranti apostoli, dottori della Chiesa, profeti, la Vergine e la natività, probabilmente con l’opera di Giovanni TODISCO (o Giovanni SABATANI, questi seguendo l’impronta di Simone da Firenze), e posizionandovi un pregevole presepe in pietra, dello scultore Altobello PERSIO (più che Stefano da PUTIGNANO, ma sicuramente non insieme). Tali lavori artistici durarono forse un triennio ma terminarono nel 1550 (sono artisticamente analoghi a quelli della Cattedrale di Matera). Al lato vi è un locale anticamente adibito al culto paleocristiano che, con il lateralmente attiguo ingresso criptale, forma uno dei pochi resti osservabili dell’architettura dei Goti incidenti sulla stessa sacralità del sito religioso. Vi si ritrova, inoltre, un altare dedicato alla Maddalena, con un dipinto del ‘500 attribuito a Cristiano DANONA da Anversa, un fonte battesimale di pregio, ed alcuni dipinti in chiesa. Poco distante, sulla frontale collina, è posizionato il magnifico ex convento di S. Francesco, dei frati Minori osservanti, costruito anche prima del 1441, data autorizzativa ufficiale della santa Sede (ma abbandonato definitivamente agli inizi del 1900). Successivamente e per oltre due secoli, si intensificò il legame tra Tursi e la grande e nobile dinastia dei DORIA (successivamente anche Doria-SPINOLA, Doria-DEL CARRETTO, COLONNA-Doria e Doria-PHAMPHILJ). Acquistato il castello dai GRIMALDI, banchieri di origini napoletane, quand’era in costruzione, la famiglia genovese lo denominò quasi subito “Palazzo Tursi” (oggi è sede del civico Municipio). Persa la sua centralità, dal più antico rione scaturiscono comunque fascino, bellezza, mistero e suggestioni. Da ricordare che, proprio in Rabatana, nella via Duca degli Abruzzi al n. 15, è nato il grande poeta Albino PIERRO (1916-1995), all’anagrafe anche Felice, più volte candidato al premio Nobel, che ha reso immortale l’arcaica lingua dialettale tursitana.
Salvatore Verde
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