“Il gemellaggio potrà servire anche ad una ripresa di interesse turistico e storico”, auspica il sindaco di Tursi Salvatore Caputo, confermando l’attesa procedura al collega di Genova Giuseppe Pericu. “Un’iniziativa istituzionale assai opportuna”, aggiunge l’assessore comunale alla Cultura Francesco Ottomano, per le considerazioni recenti, sul fenomeno dell’emigrazione iniziato nel 1952, e il solido legame dal 1594 e per oltre due secoli, della famiglia Doria, che denominò “Palazzo Tursi” la sua splendida dimora. Un approfondimento primario, merita certamente il significato della presenza araba (IX-X secolo), fin qui sostanzialmente rimossa e, riteniamo, non per mera casualità storica, poiché quasi ogni ricerca su questioni tursitane irrisolte ci (ri)porta a tale periodo. E’ già accaduto per la dedica del castello doriano (poi sede del Municipio), ipotizzata dal collega Pasquale Doria, con la famosa produzione di agrumi tursitani importati dai Saraceni, di vitale importanza per i grandi navigatori genovesi, padroni del segreto. E analogo riferimento congetturiamo nelle vicende della Chiesa locale, quando, nel 1545-46, la Cattedra vescovile fu ufficialmente traslata a Tursi, dove già risiedevano effettivamente i Vescovi, dalla vicina Anglona (da allora Diocesi di Anglona-Tursi e, dal 1976, Tursi-Lagonegro). Quali motivi impedirono la collocazione in Rabatana della sede vescovile, non facendo elevare al rango di Cattedrale la sopravvissuta chiesa di Santa Maria Maggiore? Forse, proprio alcune contaminazioni “pagane”, arabo-musulmane ed orientali, tali da far emettere ben due Bolle a papa Paolo III, che preferì prima la celebrata chiesa di San Michele Arcangelo (costruita nel X-XI sec.), e l’anno dopo, definitivamente, quella dell’Annunziata (del XV sec.), nella parte più bassa, indifesa e isolata del paese. Una enorme “stranezza” non dissolta dalla incerta spiegazione tradizionale: il centro del paese era ormai sotto la Rabatana e per motivi di sicurezza. Ragionamento debole, poiché il sito rabatanese era ipersicuro da sempre, mentre la Cattedrale dell’Annunziata era del tutto periferica, rispetto al contesto urbano pure agli inizi del XX secolo! Dunque, se ogni scelta importante si carica di significati, non solo nel passato, dobbiamo concludere che ben altri motivi siano alla base della “vexata quaestio”. Propendiamo, quindi, per una nuova ipotesi: la sopravvissuta chiesa di Santa Maria Maggiore potrebbe essere stata un luogo di culto (antichissimo e) dei Goti e, in epoca saracena, una sovrapposta moschea, magari incompiuta. Ci stimolano non solo alcuni indizi strutturali concordanti, come: la cappella laterale della sottostante cripta gotica; la risaputa (perché così tramandata e come appare ancora) linearità piatta del soffitto in legno, intagliato e decorato, inchiodato alle travi del tetto; l’anomalia del campanile “strozzato”, riadattato più volte nei secoli successivi, con un sospetto accanimento, a seconda delle “ideologie” del tempo (con tre opposte rappresentazioni grafiche già dal Seicento); ma, soprattutto, le linee diritte e i volumi elementari della sormontata forma dell’edificio, che non è a croce latina, né greca oppure bizantina o d’altro tipo, ma semplicemente rettangolare (memoria quadrangolare primigenia della “Ka’ba” abramitica dell’Islam?). Ci sono, inoltre, elementi che attengono al culto. Dall’antichità, infatti, si venerava la Madonna dell’Icona (chiaro influsso orientale-bizantino), nel senso equivalente di Effige di una Madonna, in una circolarità (auto)referenziale “senza nome”, almeno fino al XIV sec., quando vi si posizionò un trittico della Scuola (Napoletana?) di Giotto (oggi restaurato e finalmente ricollocato), e si ritenne di abbinare a quel particolare dipinto il riferimento. Invano, tant’è che la precedente dedica della chiesa a “Santa Maria Maggiore”, coesisterà fino all’attualità dei giorni nostri, con la imprecisata “Vergine dell’Icona”. Da notare che il portale d’ingresso con l’intera facciata risalgono al ‘400 inoltrato e tutti gli altri arredi di pregio sono successivi. Si pensava-sperava, forse, nell’imminenza della titolarità Vescovile? Sicuramente proprio in quel periodo la chiesa assunse le caratteristiche attuali.Ci si consenta un flash-back, per considerare l’avanzata degli Arabi nei Paesi del Mediterraneo e la riconquista successiva di molti luoghi da parte della Cristianità, dall’XII secolo in poi. Soprattutto in Spagna, ma anche in Francia e altrove, le moschee subirono tre tipi di intervento sostanziali, legati alle caratteristiche degli edifici: abbattimento totale, seguìto dalla ricostruzione in loco di una chiesa, oppure un’azione parziale e/o con adeguamenti minimi, prima di recuperarne la funzionalità religiosa e di culto. Restituiti ai fedeli, parecchi edifici si chiama(va)no “ Santa Maria Maggiore o Minore, magari con l’aggiunta di altro appellativo complementare, soprattutto territoriale”. La non casuale scelta delle autorità ecclesiastiche, pur nella diffusione del culto Mariano, probabilmente intendeva attenuare un “impatto” verso lo stesso luogo di preghiera, proprio perché la Madonna è rispettata e “venerata come Vergine e Madre di un profeta senza eguali” anche nell’Islam.Nel Cinquecento, dunque, il Pontefice, avrà ritenuto eccessiva la scelta del quartiere di origini “barbare” e con ibridazioni musulmane, potendosi urtare ancora certe suscettibilità e alcuni equilibri. Si aggiunga che alcuni studiosi lucani e locali, come i fratelli Rocco e Mario Bruno, dall’integrale lettura dei pochi documenti ricavano che la Città di Tursi abbia avuto due contestuali Diocesi, dal 1068 al 1201 circa: una di rito latino, quella di Anglona, e l’altra concorrente di rito greco e poi latino, con sede proprio nella Rabatana. Acclarato, infine, il definitivo trasferimento della Diocesi, la chiesa fu elevata in “Collegiata Insigne”, con Bolla di papa Paolo III del 26 marzo 1546: evidente parziale “risarcimento”. Sconfitti nelle aspirazioni e mutato il nome in Rabatana (da Arabetana e poi Arabatana), gli abitanti marcarono per sempre una “differenza”, utilizzando pure un’accentuata forma dialettale e facendo persistere una sanguigna rivalità con i “bassitani” del quartiere sottostante (lotta comprovata da notizie storiche univoche ed indubitabili, continuata fino al secolo scorso). Iniziò così un lento, ma efficace lavoro di obnubilamento della tradizione araba. Non a caso, disputando sull’origine di Tursi, solo pochi studiosi moderni e contemporanei hanno fatto riferimento all’ampiamente noto “Tursah”, riportato già nel 1154 dal più grande geografo arabo, Al-Idrìsì (ma il nome è scritto in diversi modi, ndr.), sui siti di cultura ritenuti sicuri. Insomma, degli arabi Saraceni non se ne doveva mai più riparlare. Almeno fino ad oggi. In conclusione, essendo la Rabatana il primo e affollato borgo, aveva un suo visibile luogo di culto, con grandi garanzie in termini di sicurezza, ma “mancava” il richiesto prestigio della tradizione, con l’ombra di un “peccato” d’origine. Quello che oggi si vorrebbe riscoprire. Lo consentono i tempi mutati e l’eterno bisogno di verità. Salvatore Verde
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