Solo una sorta di “timidezza” istituzionale, aveva impedito fino ad oggi il gemellaggio con il comune di Genova. Da un cinquantennio, come riferivano almeno un paio di sindaci deceduti nel passato recente (Vittorio Labriola e Mario De Santis), gli amministratori tursitani pensavano che la notissima “Superba” delle Città Marinare, che vanta antiche e nobilissime tradizioni, difficilmente avrebbe accettato una tale proposta da un piccolo paese del Sud. Invece, a sbloccare il tutto, nonostante gli opposti schieramenti politici d’appartenenza, perché “convinti della bontà socio-culturale di più stretti rapporti tra le città della Lanterna e della Rabatana”, sono bastati una intuizione dell’assessore comunale alla Cultura Francesco Ottomano e un recente “cordiale colloquio” del sindaco tursitano Salvatore Caputo, di Fi, con il primo cittadino genovese Giuseppe Pericu, dei Ds, “dimostratosi subito molto disponibile, tanto da impegnarsi per future ampie collaborazioni e nella proposta di un protocollo d’intesa”. E non poteva essere diversamente, poiché i legami forti, duraturi e visibili delle realtà di Tursi e Genova, risalgono almeno al XVI secolo, tramite la grande famiglia dei Doria. Vincoli rinnovatisi dal 1952 in poi, con la nascita e il proliferare dell’emigrazione; attualmente sono ben oltre seimila i tursitani nelle varie discendenze, più degli effettivi residenti, che non superano i 5.500. Smarriti i registri ufficiali dell’emigrazione, forse a causa del trasferimento della sede municipale, risulta difficile fornire dati precisi di quel periodo, se non deduttivamente, ma è comunque certo che sono state una rarità le famiglie non toccate direttamente dall’esodo per motivi di lavoro di congiunti e parenti stretti. Da notare, tuttavia, che la popolazione residente non ha subito un drastico calo demografico, poiché attenuato da un boom delle nascite, in perfetto parallelismo con quello economico e con le migliorate condizioni generali di vita anche in loco. Dunque, sparsa tra Cornigliano e Sestri Ponente, l’abbondante manovalanza, proveniente anche da molti comuni della provincia, è stata utilizzata soprattutto nelle grandi industrie siderurgiche e della cantieristica di mare (Italsider, Ansaldo, Cantieri Navali), oltre che nel settore stradale e dell’edilizia (Italstrade). Parecchi hanno continuato nel secondo lavoro artigianale, se posseduto prima della partenza, o in altri più o meno gravosi ed umili, con tutte le difficoltà di accoglienza e inserimento, tristemente note anche ai nostri emigranti non soltanto all’Estero, ma anche all’interno del cosiddetto triangolo industriale (“Ge-Mi-To”). Dagli anni Cinquanta, dunque, ogni mese decine di emigranti partivano in treno, solo successivamente raggiunti dai familiari, come ha mirabilmente fissato il grande Luchino Visconti nel suo capolavoro “Rocco e i suoi fratelli”, guarda caso riferendosi ad una famiglia materana. Però i contatti non si sono mai interrotti ed i rientri “puntuali” in agosto, nel tempo inevitabilmente con progressivo calo, sono continuati fino ai giorni nostri, con le ferie scelte o protratte fino alla festa della Madonna del Santuario di Anglona, l’8 settembre. Un attestato di devozione dei tanti fedeli emigrati che ha meritato, lo scorso 2 giugno, il dono di una statua di Maria Ss. Regina di Anglona alla comunità tursitana di Genova. Tranne la parentesi della crescente crisi petrolifera ed industriale degli anni Ottanta, con il modesto rientro di diverse famiglie nel natìo paese, da almeno un decennio, è ripreso con una certa evidenza il consolidato esodo. Se un tempo i viaggi duravano mediamente 24 ore, le autostrade hanno accorciato comodamente i tempi a meno di dieci ore attuali, senza eccessiva difficoltà. I nomi di Tonino Gentile, Filippo Calciano detto Mariella, Salvatore Parziale e di Gaetano Salerno, Arturo Iacovino o di Pino Continanza, ricordano i camionisti abituali per il trasporto di ottimi generi alimentari (soprattutto agrumi, verdure, salumi, olio, vino e pane), segnando addirittura i periodi con la loro attività e con i punti di ritrovo fissati, anche per lo scambio di lontane notizie pur’esse “fresche”, nonostante la posta e i telefoni. Da alcuni anni, grandi autobus di linea percorrono lo stesso tragitto, e Tursi è la tappa obbligata iniziale di tale collegamento. “Di qui l’avvertita necessità di voler dare significato istituzionale a quanto di fatto già avviene”, ha scritto, appena ieri, il sindaco Caputo al collega Pericu. E chissà cosa penserà anche l’ultimo discendente della nobile famiglia dei Doria, già principi di Melfi, oltre che duchi e signori di Tursi dalla seconda metà del 1500 e per oltre due secoli, nel constatare i rinnovati atti e gesti segnati da tali vincoli. Di certo i genovesi si spiegheranno il perché del nome del loro municipio, appunto Palazzo Tursi, dopo essere stato per secoli una splendida dimora doriana. In segno di particolare “affetto”, si è detto sempre. Ma, forse, molto plausibilmente, la motivazione rappresentava anche l’indicazione di una “convenienza” (ineludibile quando si parla di Genovesi?), legata all’essenziale produzione araba delle famose arance tursitane, in qualche modo vitale per le loro scorribande marine. Ma questa è un’altra storia, che racconteremo la prossima volta. I PRIMI EMIGRANTI TURSITANI DEGLI ANNI CINQUANTA Del fenomeno migratorio, è sociologicamente rilevante e inusuale che si conoscano come sia cominciato e le persone coinvolte. Uno dei protagonisti di quella vicenda, Pasquale Mastrangelo, 80 anni, ricorda: “ Nel 1952, un gruppo di operai tursitani era ancora impegnato nella locale costruzione della diga di Gannano, sul fiume Agri, appaltatrice l’impresa ‘I.B.C.’ di Bologna, che eseguiva lavori esterni. Alcuni facevano i “cassonisti”, alle dipendenze della società genovese “Fondazioni Spa” , specializzata, appunto, in fondazioni e pilastri. Terminata quella lunga fase nel dicembre 1951, la prima settimana del successivo marzo, l’impresa ripartì per Genova con un contratto di lavoro per alcuni di noi. Assieme a me, accettarono: Biagio Gulfo, Filippo Santarsia, Michele e Giuseppe Le Rose, Beppe Vozzi e altri due”. Se avevi la sicurezza del lavoro eri trattato bene, ma chi veniva all’avventura aveva problemi. Un po’ come accade oggi. Il lavoro era duro, ma, essendo giovane sono rimasto tre anni con la “Fondazioni” e poi sono passato all’Italstrade per 21 anni (cinque dei quali in ‘trasferta’ a Taranto). Sono ritornato a Tursi definitivamente grazie al posto statale di bidello, che ho fatto per quindici anni, poi la pensione in questa casa popolare, con mia moglie Maria Grazia Palermo, di sei anni più giovane, che mi ha dato 12 figli. Ho vissuto più di altri che sono rimasti qui senza lavoro, però, mai avrei immaginato la grande emigrazione successiva, che comprende anche i miei figli”. Salvatore Verde
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