Nel rione di San Michele, proprio sotto la Rabatana, è capitata un’incredibile storia medievale: il ritrovamento di monete antiche con il mistero della tomba di un “guerriero”, comprensivo di cavallo e spada. Ma il mancato riconoscimento immediato del valore della scoperta, la fa avvolgere nell’oblio, vagamente sopravvissuta da almeno mezzo secolo come una piccola leggenda “del tesoro e del cavaliere”. Per una ricostruzione dei fatti e tentare di venirne a capo, abbiamo sollecitato il racconto del principale protagonista, Giuseppe Manfredi, 75 anni, ex agricoltore, come i genitori. Sull’attendibilità del diretto interessato, giovane testimone dell’incredibile vicenda, da sempre non sussistono dubbi. Tutto si colloca nel 1951-52, quando in un orticello di via Carlo Alberto (oggi al n. 70), era da poco iniziata la costruzione del suo stabile, al lato del palazzo dell’antica e originariamente nobile famiglia Manfreda (di fianco alla cantina del cugino Vincenzo Sanchirico, una lunga grotta ricavata nell’arenaria timpa). “Durante gli scavi perimetrali delle fondazioni i muratori, in mia presenza, trovarono nella terra un bel cumulo di monete, a centinaia. Si capì subito che non erano di oro o argento, al massimo, si pensò, di rame o altro materiale rossastro; ma l’attenzione si soffermò sulle loro date e geometrie: erano rotonde, alcune con gli spigoli tagliati e altre quasi a forma di cuore, tutte impresse tra il 1200 e il XIV secolo. Si rinvenne anche un’anfora media (come un contenitore per olio da 10 chili). Con questi materiali, per curiosità valutativa, ci recammo dal vicino orefice Emilio Palazzo, che osservò appena i reperti e ci congedò dicendo sostanzialmente che era tutto privo di valore. Le monete, infatti, non avevano commerciabilità, erano realizzate con metalli non pregiati e non appartenevano neppure all’epoca greco-romana, mentre l’anfora non aveva decorazioni e disegni. Restituì le cose, senza trattenerne una. A quel punto, riprendemmo la vita di tutti i giorni, e le monetine diventarono oggetto di regali e strumenti di gioco per bambini e ragazzi del vicinato (una conferma arriva dall’odierno pensionato Salvatore Padula), tanto che ben presto andarono disperse tutte. Circa un paio d’anni dopo, però, da Roma, dove viveva e lavorava, il prof. Antonio Palazzo, detto Totonno, evidentemente venuto a conoscenza dell’accaduto dallo stesso fratello orefice, venne a trovarmi accompagnato da due distinti signori, a loro dire esperti di cose antiche e impiegati in un museo romano. Riferii loro all’incirca le stesse cose di oggi, non avendo più nulla di concreto. Nessuno da allora si è più interessato a questa vicenda. In ogni caso, sia a ridosso della scoperta, sia agli ospiti romani, omettemmo di dire degli altri rinvenimenti, capitati in quello stesso giorno lavorativo. Accadde, infatti, che ad alcuni metri di distanza, vennero alla luce i resti frantumati di molti pezzi di ossa, i meglio conservati appartenevano presumibilmente ad un intero cavallo, perchè le quattro zampe erano intatte, avendo dei ferri ed essendo bardate di lamine di metallo. C’era pure una spada ben conservata, lunga meno di un metro (poi portata a casa con la mia autorizzazione, e mai restituitaci, da Alfonso Cassavia, l’altro giovane muratore era Vincenzo Soria). Che valore poteva essere attribuito a tutto questo, se perfino le monete valevano niente? Si continuò, perciò, a edificare. Nel terreno notoriamente un po’ umido, e a poca distanza, trovammo anche incastrate grandi lastre di pietra lisce, due larghe e alte circa un metro e altrettante lunghe il doppio, mentre pochi pezzi erano sparsi. Assurdamente pensammo ad una ‘vasca da bagno’. Tuttavia, Giuseppe Padula, l’apprendista (che oggi vive a Policoro, pensionato e con sensibilità di poeta, ndr.), si dichiarò disponibile a ripagare i ritardi edificativi e a rifarli a sue spese, qualora lo avessimo autorizzato a continuare la ricerca. Risposi negativamente, essendoci un contenzioso difficile con il tenace dirimpettaio Salvatore Verde (nonno del cronista, ndr.), e i lavori proseguirono per completare i cinque piani. Adesso è praticamente impossibile fare qualcosa”. Fin qui il racconto. Possiamo, dunque, dolerci che gli scavi non siano proseguiti. Passi pure che nel corso del tempo ci sia stato solo un ambiguo collegamento tra i ritrovamenti (e non è da escludere che esemplari di moneta siano stati conservati da qualche longevo collezionista tursitano), ma siamo autorizzati a pensare con certezza ad una tomba ben conservata (improbabile della stessa grande famiglia). L’eccessiva frantumazione delle ossa, ci fa ritenere plausibile lo svuotamento tombale, come se il contenuto fosse scivolato, poiché il terreno ha accentuato nei secoli la modalità di ripida scarpata. Inoltre, la spada avvalora la contestuale tumulazione del cavaliere, inoppugnabilmente verificabile se si fosse proceduto ad una più meticolosa ricognizione. Cavallo e guerriero, sono un binomio che accredita l’importanza della scoperta. Né tragga in inganno l’indeterminatezza del luogo, che, invece, è distante solo una trentina di metri (a quel tempo addirittura molto meno) dalla grande chiesa a tre navate di San Michele Arcangelo, a Tursi l’unica con il “cupolone” sovrastante l’altare maggiore, ormai sparito assieme alla metà dello stesso edificio con il terremoto del 1857 o a causa di una frana (è chiusa definitivamente al culto dal 1981, quando un fulmine ha distrutto il campanile, rendendo tutta la struttura pericolante, ndr.). Luogo di culto straordinario già dalla fine del primo millennio, se è vero che vi si tenne un sinodo nel 1060, indetto dal pontefice Nicolò II, “per la riforma della disciplina ecclesiastica”, scrive Rocco Bruno nella sua imprescindibile “Storia di Tursi” (1989). Si ricorda anche l’accordo stipulato all’interno, nel 1320, tra il Vescovo di Anglona Marco e Giacomo, archimandrita del monastero di Carbone, e poco altro delle vicende storiche tursitane nel periodo considerato (XI-XIV secolo, circa). Con un sostanziale vuoto di dati e notizie, sarebbe questa, dunque, un primo rilevante indizio provato sugli eventi quotidiani dell’epoca. Resta da fare un’ipotesi sul cavaliere, la prossima volta. Salvatore Verde
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