Un affresco integro e datato “A.D. 1377”, ritrovato nella chiesa del Complesso conventuale di San Francesco, farà ricollocare necessariamente le vicende locali e contribuirà alla riscrittura della storia degli insediamenti francescani in Basilicata. La scoperta è davvero clamorosa, poiché il sito religioso era dagli studiosi ed esperti ancora oggi ritenuto tra i primi e più importanti, (cronologicamente?) dopo quelli di Venosa, Atella e Miglionico, del territorio lucano (allora nella provincia monastica di Puglia fino al 1517, quando fu istituita quella di Basilicata e il centro fu visitato nel 1519 dal Ministro Generale dell’Ordine dei Minori, p. Francesco LICHETTO). Si è fatto risalire sempre la costruzione al 1441, come riportato anche in una Bolla papale in latino. In realtà, l’austero impianto architettonico originario ha subito diverse sovrapposizioni, con interventi di completamento alla fine del 1600 e altri rimaneggiamenti successivi non invasivi, si dice tranne quelli del 1857, quando un terremoto avrebbe causato danni di rilievo, restaurati a spese della Mensa Vescovile di Tursi, con i lavori diretti dal maestro muratore Emanuele VOZZI. Sappiamo adesso e lo sostenevamo da anni, circondati da scetticismo, che l’ex convento risale almeno ad un secolo prima. L’indiscutibile prova, dunque, è nel notevole affresco policromo, ben nascosto dietro le mura del primo altarino di destra appena dopo l’ingresso della chiesa (ma ne sono apparsi altri di sicuro interesse artistico anche nelle arcate adiacenti). Proprio la costruzione successiva dei piccoli altari devozionali, si presuppone per l’abbellimento esteriore dell’unica grande navata o per assecondare le richieste di signori altolocati avvicendatisi nel tempo, si è rivelata un efficace riparo dall’inclemenza atmosferica (infiltrazioni di luce e umidità), e da possibili vandalismi umani, consentendo la loro intatta conservazione. Ma non si può neppure escludere che l’occultamente dietro una parete sia la conseguenza di quelle stesse immagini: in primo piano e ai lati due santi, indietro la scena di un prato con le colline sullo sfondo, una coppia di donne (le committenti?) con il rosario in mano, protese verso un frate inginocchiato seguito da un novizio. Con la datazione oggi possibile, si comprendono le sostanziali reticenze dubbiose sulla fondazione del convento da parte del medico e archeologo Antonio NIGRO, primo grande storico di Tursi, che nella sua giustamente celebre opera “Memoria topografica Istorica Sulla Città Di Tursi”, del 1851, pubblicò anche la famosa bolla autorizzativa di papa EUGENIO IV, da lui stesso ritrovata in un manuale di frate Egidio di Calvello, aggiungendo nulla o assai poco a riguardo, se non che il plesso fu forse voluto dal vescovo Giacomo CASCIANO (o COFANO) di Tursi con il sostegno di un certo conte Niccola. Versione ripresa e aggiornata dallo storico locale Rocco BRUNO, nelle sue due edizioni della “Storia di Tursi”, 1977 e 1989. Da allora è stato tutto un benevolo rimando citazionistico a quelle fonti da parte di affermati studiosi, cultori e studenti universitari locali nelle loro tesi di laurea (T. CRISPINO-S. PISCOPO, 2005; S. GRAVINO-A. RONDINELLI e E.S. BOCCARDI, nel 2004, M.D. GULFO, 2000; S. DI GREGORIO, 1999; N. CRISPINO, 1987; L. CALDARARO-A.S. DI NOIA-G. GRAZIANO, 1967). Eretto su una collina geologicamente caratterizzata dalle Sabbie di Tursi, a 270 metri slm, il luogo si colloca ad est dell’abitato della Rabatana, dal quale dista un chilometro circa, ed è sostanzialmente ancora intatto, per lo più coperto da uliveti e pini, e la vista che si gode è di rara suggestione, quasi misticheggiante, sui vertiginosi calanchi. Il convento dei Frati francescani dell’Ordine dei Minori Osservanti è un magnifico esemplare di architettura religiosa, a pianta regolare di circa 50 metri di lato, che si sviluppa attorno ad un chiostro centrale, anch’esso quadrato, circoscritto sia al piano terra che al primo piano da un lungo corridoio perimetrale. La parte più antica è costituita dal corpo centrale della chiesa e dai suoi locali laterali di servizio. La chiesa, a navata unica, ha copertura a volta “a botte”, nella quale si collocano, con regolarità, le aperture per l’illuminazione; nelle mura dei lati sono ricavate cinque nicchie per parte. Probabilmente nell’Ottocento, durante i lavori di ammodernamento del convento, la chiesa è stata decorata con stucchi in gesso. Su tutto domina la maestosità del campanile arabeggiante, assieme ad altri coerenti particolari interni. Gli ultimi interventi, per la tardiva messa in sicurezza e ristrutturazione, il consolidamento e restauro dell’intero edificio, davvero in condizioni di precario abbandono e seriamente lesionato negli ultimi decenni, sono stati eseguiti da anni a cura della Soprintendenza ai Beni Culturali (attualmente sono fermi, con i parziali finanziamenti al termine). Attivo in continuità, con la costante presenza di una ventina di frati e un centinaio allievi, sotto la regola degli Osservanti il convento prosperò sin dalla sua fondazione con un noviziato e un professorato, con la scuola di teologia e uno studio di filosofia, divenendo nel Seicento centro culturale di prima grandezza, con un seminario di tutte le arti liberali per volere del cardinale POMPEO D’ARAGONA e di padre Angelo DI AVERSA (rispettivamente protettore dell’Ordine dei Minori Osservanti e Vicario generale), grazie ai lasciti dei beni di Possidonio ROTA e del figlio Francesco, dottore di Tursi. Occupato militarmente e saccheggiato dai francesi di BONAPARTE (che bruciarono l’ottima biblioteca), perciò non più frequentato, il sito dimise solo nel 1807 la sua originaria funzione (con l’abbandono dei frati il 14 febbraio), ripristinata undici anni dopo con la riconquista del Regno delle Due Sicilie di FERDINANDO IV; venne poi soppresso nel 1866 (a seguito dell’emanazione della legge del 7 luglio), per aver dato sicuramente ospitalità ai briganti, e fu adibito a luogo di sepoltura fino al 1894 (anno di costruzione effettiva del cimitero). Intanto, l’intera struttura e il terreno intorno furono venduti dal Comune nel 1892 (era sindaco Giacomo GINNARI SATRIANI), con atto dell’8 aprile del notaio Giuseppe DE STEFANO. Per lire 2.493, 60, acquistò il tutto mons. Daniele VIRGALLITA, arcidiacono della Cattedrale di Tursi, il quale chiamò le suore “Margheritine Francescane”, perché si occupassero dell’educazione di orfane, bisognose e fanciulle di nobili, ma l’esperienza durò poco e le religiose andarono via; inseguito volle il ritorno dei frati. Intanto, cresceva l’indebitamento”gestionale”e questo lo indusse ad alienare la proprietà, una parte (il 1° aprile 1901) al frate don Pasquale DE VITO da Grassano e un’altra al sacerdote don Rocco DE FELICE. Questi, il 28 luglio 1926, la vendette al frate comproprietario e in tal modo il De Vito rimase unico intestatario del bene immobile e dei terreni circostanti. Nel 1909 l’abbandono e la definitiva chiusura, che avvenne nel 1914. La cappella (rimasta di proprietà della Chiesa con il campanile e alcuni vani annessi) è stata utilizzata ancora negli anni Sessanta del Novecento nel giorno della festa di Sant’Antonio, con l’assai partecipata processione del 13 giugno, soprattutto per merito del prevosto della Rabatana mons. Salvatore TARSIA. Inutili furono i tentativi di mons. Pasquale QUAREMBA (Vescovo di Anglona e Tursi dal 1947 al 1957) di riappropriarsi dell’intero convento, pare per la ritrosia degli sparsi e numerosi eredi De Vito. Nel 1991 è stato dichiarato monumento nazionale dal Ministro Ferdinando FACCHIANO. Il casuale ritrovamento conferma quanto ancora ci sia da scavare a fondo per far luce con pienezza sulla storica e nobile grandezza della città di Tursi.
QUEI MORTI (DIS)SEPOLTI A SAN FRANCESCO (NON) CI APPARTENGONO? Com’è ampiamente risaputo e documentato, il complesso conventuale di San Francesco è stato purtroppo oggetto di insistite ruberie e di atti di vandalismo sacrilego a danno dei morti sepolti nei pressi e all’interno della chiesa, per circa un secolo. Cosa può aver spinto la mente umana a simili nefandezze, fino ad anni relativamente recenti? Di quale colpa grave ed imperdonabile potevano mai essere (stati) accusati i defunti (quand’erano in vita)? Tutto ciò merita una pur minima spiegazione (se c’è), a meno di ricorrere a costruzioni pretenziose sulla irrazionale individualità degli sciacallaggi, in sèguito davvero troppi per accontentarsi di tali vacuità. Insomma, esiste un (ipotizzabile) nesso remoto di causa ed effetto perverso? È noto che si trattava di sepolture quasi sempre di persone altolocate e, comunque, tali da suscitare solo la bramosia di accaparramento del presunto ricco corredo funerario e dei preziosi addosso al defunto? È anche possibile che gli stessi inumati adulti (e poco importava se c’erano anche donne e bambini), evocassero la memoria della loro totale separatezza sociale verso la gran parte della popolazione locale, essendo con probabilità adusi ad ostentare un aristocratico distacco e freddezza in vita, forse scambiato per mancanza di rispetto. Di certo l’odio può portare alla vendetta anche postuma, essendo verosimilmente il tormento della percezione deviata di alcuni furfanti in miseria, analfabeti e niente affatto timorati di Dio. Quasi che, semplificando, quei morti non suscitassero sentimenti diffusi di rispetto e di appartenenza alla comunità del luogo, nel senso che ogni legame era stato reciso già in vita e continuava da morti, in una sorta di vizio ideologico pre politico. Questa una ipotetica e illogica spia mentale di un comportamento innaturale, lacerato eticamente e senza freni inibitori socio-culturali. (Il grande Vate tursitano, Albino Pierro, insuperato poeta dialettale e in lingua, che apparteneva al mondo dei” patrizi” locali, appresa la notizia, si riferiva a tale barbarie). Un orrendo fenomeno che, però, ha visto primi protagonisti gli stessi monaci dell’Ottocento (notoriamente più propensi alle letture dell’amato Boccaccio che dell’Inferno di Dante, della Bibbia neppure il pensiero), scoperti a depredare dentro le bare e per questo denunciati alle autorità dal Consiglio comunale dell’epoca, con precisi atti deliberativi e dopo anni di malcelata e rancorosa sopportazione (cosa che accelerò la costruzione del cimitero, infine realizzato nel 1894). Venuto meno un importante modello di riferimento, corrotto, licenzioso ed eretico, si aprì in tal modo la crepa nel culto dei morti. La violazione dei corpi, molti erano stranamente ben conservati, si allargò morbosamente, fino a coinvolgere persone in apparenza del tutto normali, pure credenti, e poi anche i giovani senza ritegno che, non asportando più nulla, non avevano neppure lo pseudo alibi del furto, magari su commissione. Con i recenti lavori eseguiti nel luogo, si è tentato di mettere ordine, disseppellendo ed eliminando le restanti tombe. Ancora oggi, in una nicchia dietro l’altare sono raccolti e conservati nei sacchi i miseri resti umani, migliaia di ossa, che attendono una degna e definitiva sepoltura, auspicabilmente nella pace della vera quiete di un benedetto camposanto. Salvatore Verde
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