Una prova documentale conferma essenzialmente tre cose del passato di Tursi: primo, nel 1764 ci fu un evento che ebbe del miracoloso durante i festeggiamenti della Madonna dell’Icona in Rabatana, vale a dire lo scoppio di un cannone pirotecnico che non causò morti o feriti; secondo, dopo la mancata strage ne conseguì un considerevole aumento delle oblazioni dei fedeli ed entro l’anno successivo la cappella della chiesa di Santa Maria Maggiore fu rimessa a nuovo e si costruì il moderno l’altare; terzo, non si fa alcun cenno di altre opere d’arte di valore situate nella chiesa citata, tranne l’Effige che, però, non si sa che fine abbia fatto dopo. Né mancano riferimenti alle origini tursitane. Tutto ciò è contenuto nel “Panegirico Per la Miracolosa Effige della Gran Madre Di Dio Cognominata Dell’Icone, Detto in Tursi Dal Reverendo D. Giuseppe Maria Pepe; E Dedicato All’Illustriss. Signor D. Giulio Cesare Donnaperna Primogenito de’ Baroni di Colobraro, &c. In Napoli MDCCLXV Con Licenza de’ Superiori”, lungo titolo di un documento assolutamente sconosciuto e casualmente ritrovato agli inizi degli anni Ottanta in una discarica abusiva dal prof. Salvatore Gravino, tursitano, già insegnante elementare e oggi docente di lettere nel locale Istituto comprensivo “A. Pierro”. Un tempo appartenuto sicuramente, per avervi apposto la sua firma autografa in copertina, a tal Giovanni Fasolo P., di una nota famiglia di Rocca Imperiale, il testo originale è di non facile lettura, non solo per la stampa tipografica delle consonanti “s” e “f” quasi identiche, quanto soprattutto per i tanti rimandi storici di non agevole ed immediata datazione e verifica. Né aiuta particolarmente la forma del “discorso”, oggi largamente desueto. Conviene, infatti, ricordare che il “panegirico” (dal greco ‘panégyris’, adunanza di tutto il popolo), antico e rinomato esempio di un genere dell’oratoria “d’argomento politico o di carattere celebrativo”, proprio nell’età medievale e moderna è presente sovente come caratteristica dell’oratoria sacra (“discorsi in lode di un santo”). Si aggiunga inoltre che solo nella dedica introduttiva si fa riferimento alla nobile e ricca famiglia dei “Donnaperna, marchesi di Colobraro, baroni di Pomarico, Calvera, Teana, Carbone, possessori delle tenute di Scanzano e Caprarico”, sulla quale lo storico tursitani Rocco Bruno ha scritto un libro nel 1986. Originari di Milano, i Donnaperna furono in Basilicata tra le più potenti, tanto da segnare Tursi e la sua storia per circa tre secoli, come i nobili Doria di Genova, dagli inizi del 1600, fissando un’abituale dimora nel primo borgo della Rabatana (oggi in Via Mario Pagano, già Via Donnaperna fino all’unità d’Italia del 1860). Proprio nell’insediamento di origine gotica e poi caratterizzato dalla permanenza significativa degli arabi, secondo le ipotesi più accreditate, è situata la chiesa di Santa Maria Maggiore, edificata dai Basiliani nel IX-X secolo ed eretta in Collegiata con bolla di papa Paolo III nel 1546, dove si trova il famoso presepe in pietra collocato dal XV° secolo nella sottostante cripta e attribuito allo scultore Altobello Persio, ma soprattutto dove si venera da tempo immemore la Madonna dell’Icona, che una tradizione popolare identifica in quella effigiata nel celeberrimo ‘trittico’ del Trecento, opera sicuramente di un abile pittore della scuola napoletana di Giotto, da anni restaurato e stranamente non ancora restituito al luogo d’origine, tra le generalizzabili doglianze non solo dei rabatanesi-tursitani. Ma di tutto questo stranamente non si fa alcun cenno nel panegirico, che è dedicato a Giulio Cesare Donnaperna, di otto anni, essendo nato nel 1757, forse proprio per il compleanno del 2 luglio, figlio di Giuseppe Paolo e nipote di Filippo Maria, affinché “il bellissimo e portentoso Simulacro,…l’adorata Immagine,…la gloriosa Icone,…” lo protegga, come ha sempre fatto con “l’illustrissima città di Tursi” che l’ha “tenuta come protettrice”. Si tratta di “una dipinta tavola non fregiata di argento, non arricchita d’oro, né tempestata di gemme, ma nuda e semplice com’era quella di S. Francesco da Paola, per cui nientedimeno offrì tante migliaja il Re di Francia Ludovico XI, e pur non ebbe il piacere di ottenerla”; “bell’avanzo di antichità…e Tesoro assai prezioso, assai mirabile ed assai caro: prezioso per l’obietto; mirabile per lo mezzo, e caro per lo fine”. Dopo averne scandagliato i minimi particolari del volto, utilizzando similitudini e metafore auliche, don Giuseppe Maria Pepe, (rettore?) del Seminario di Tursi, si sofferma con acutezza di critico e storico non solo dell’Arte, citando Ferdinandus Ughelli de Episcopatu Anglonens, Calvino, papa Giovanni II, proprio sulle origini del dipinto e della stessa Tursi, risalenti “dal tempo dei Gothi o pria dell’ottavo secolo”. Con riferimenti ampi al “furore dell’empio Iconoclaste Leone, e di Copronimo figlio peggior del Padre”, e quando “Tursi in mezzo a un mare di guaj…i Gothi fecero sue conquiste in queste parti”, seguiti da altri “nemici e barbari…giacchè pur si crede, che degli Arabi, o siano Saraceni, dopo l’universale discacciamento da questo Regno sia rimasto qualche picciol avanzo in Tursi; cagion per cui buona parte della Città chiamasi anche oggidi l’Arabetana”. Quindi aggiunge che “E’ vero che in quest’anno gran saggi e pruove solleciti ne deste, e nel rifar la Cappella, e nell’erger l’altare, e nel crescer l’oblazioni”, in segno di gratitudine e devozione per la scampata strage dallo scoppio di un cannone tra la folla, evento miracoloso e leggendario in un centro dalla consolidata tradizione artigianale dei fuochi pirotecnici. Che durerà fino al 1962, quando una tragica esplosione quasi disintegrerà quattro persone della notissima famiglia Ferrara di fuochisti, proprio al Ponte della Rabatana per i festeggiamenti del 16 luglio della Madonna del Carmine (o della Beata Vergine del Carmelo), che da allora non si è mai più celebrata ed è letteralmente scomparsa dalla tradizione delle feste religiose locali. Si stenta a credere quanto Tursi sia stata importante e come sia incredibilmente tentata nella sua decadenza. Ma briciole di gloria sopravvivono. Salvatore Verde
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