SUL TOPONIMO SANTI QUARANTA E SULLA ESTINZIONE DELLA NOBILE FAMIGLIA DE GEORGIIS di Salvatore Verde
L'attuale toponomastica di
Tursi conserva diverse denominazioni antiche, che meriterebbero un dovuto approfondimento,
anche perché di esse non sono state mai del tutto chiarite origini e
significati. Una in particolare, tra le più intriganti e suggestive, anche per
le implicazioni storico-religiose, è stata oggetto del nostro interessamento. Ci
riferiamo alla nota località Santi Quaranta.
Nel suo libro Storia di Tursi (Romeo Porfidio Editore, Moliterno, PZ, giugno
1989; ma è annunciato un prossimo aggiornamento a cura del prof. Gianluca
Cappucci), il cultore di storia locale Rocco Bruno (Tursi, 5 gennaio 1939 - 6
gennaio 2009) scrive sette righi e mezzo di rilievo: "È probabile che nei tempi antichi in Santi Quaranta, ove oggi / sorge
il più nuovo rione di Tursi, esistesse una chiesa. Infatti, fino / a qualche
decennio fa, si notavano resti di un'antica costruzione. / Questa doveva essere
una chiesa in cui si veneravano i 40 Santi / martiri dell'Armenia, trucidati
nel 320. In
Santi Quaranta, dice il / Nigro, si svolgeva una fiera detta di San Marco e lo
stesso ricorda, / ancora esistente nella prima metà dell'ottocento, nel sito
‘Mene- / stello' un'antica volta di fabbrica".
Per suffragare la
probabilità dei resti di una chiesa, egli si aggancia al primo, prezioso e
fondamentale testo (ormai introvabile)
del medico, umanista e archeologo tursitano Antonio Nigro (Tursi, 1764 - 19 maggio 1854), dal titolo Memoria topografica istorica
sulla Città di Tursi e sull'antica Pandosia di Eraclea oggi Anglona
(Tipografia Miranda, Napoli, 1851; opportunamente
ripubblicato nel 2009, da ArchiviA di Rotondella, MT, a cura di Battista
D'Alessandro, con una integrale riscrittura, note comprese).
Lo storico
tursitano Bruno colloca la questione nel capitolo XXVII, dedicato appunto alle "Chiese"
(pag. 260), sulla base di una ipotesi
diciamo "archeologica" (meglio, "repertologica"), il cui ragionamento poggia su
un doppio assunto possibile ma indimostrato, anzi ritengo improbabile, pure se
collocato sullo sfondo di una generale verità storica. Quand'anche fosse esistito
un luogo di culto (l'accenno dei due autori ai resti visibili, pure se
indiretto, non può essere facilmente superato), è assai arduo sostenere
l'esistenza della venerazione dei Quaranta martiri cristiani di Sebaste,
nell'Armenia Minore (verso il 320 d.C.), noti come Santi Quaranta.
Le due cose,
dunque, sono reciprocamente concausali nell'opinione comune: se c'era una
chiesa anche quel culto era sicuro, oppure, se c'è il nome (dei) santi allora
ci sarà stata anche una chiesa. Il
ragionamento generale e deduttivo di Bruno si fonderebbe sul rilevante dato culturale
e storico-monastico degli insediamenti dei Bizantini nella Basilicata, i quali
avrebbero importato tale culto, e quindi pure a Tursi. La dominazione bizantina
è un fatto accertato e non lo si mette minimamente in discussione, ma non è
centrale rispetto al ragionamento da farsi nella circostanza, poiché mi pare
davvero pindarico il salto nello specifico toponomastico.
Gli storici professionisti
e anche dilettanti, sanno tutti assai bene che la ricerca delle fonti e il
supporto della documentazione sono la stella polare di qualsiasi ricerca, a
maggior ragione se deve approdare a una qualche dimostrazione in caso di
controversia. Chi cerca trova, si dice, ma non sempre accade, e a volte questo avviene
anche del tutto casualmente. Occorre aggiungere che la leggenda del legame chiesa-culto
(il nome Santi Quaranta e il richiamo alla storia degli eletti martiri armeni)
non ha un benché minimo supporto documentabile per quanto ci riguarda (ma questo vale anche per le fantasiose
derivazioni del fondatore, un fantomatico condottiero, e dello stesso nome
della città di Tursi, dalle varianti di "torre", pure se stranamente effigiata
nello stemma, tant'è che noi propendiamo per "Tursah", dall'arabo antico: luogo
collinare attraversato da un canale).
Tuttavia, in questo caso, un po' di
fortuna, chiamiamola così, e una nota robusta prassi della tradizione (relativa
al sorgere dei toponimi), sembrano averci dato una mano, anzi due, consentendoci
di fare davvero un passo in avanti, crediamo definitivo, anche se non abbiamo
alcuna pretesa di esaustività e di conseguente eterna certezza. Diciamo subito
che si tratta di una località, al tempo fuori le mura della Università di Tursi
(il confine urbano dell'amministrazione civica, in senso moderno), che deve il
nome alla nobile famiglia De Quaranta, l'esistenza della quale si evince
chiaramente da documenti. E questo sembra contraddire l'assunto ipotizzato dagli
storici fino a oggi, pur tralasciando la questione della delimitazione territoriale,
cioè se l'attuale zona coincida con quella antica, irrilevante nel caso in
esame.
Intanto, è legittimo chiedersi: la famiglia De Quaranta è davvero esistita?
E fino a quando? Quale la sua origine? Era una famiglia isolata? Perché Bruno e
Nigro non ne parlano? La nostra risposta non scambia gli effetti con la causa e
neppure altera minimamente un'utile abitudine consolidata in tal senso, sulla
nominazione di un luogo (di proprietà), come accade(va) e si sa ovunque.
Occorre tenere a mente che, nei secoli XVI-XVIII, non soltanto Tursi era sotto
il dominio, la tutela e l'influenza della Spagna, con il ducato dei Doria (anche
prima?).
Passiamo
alla nostra documentazione. In un atto del 28 gennaio del 1573, trascritto dal
notaio Lorenzo de Helis di Tursi (nel distretto di Lagonegro), la nobile Pacentia
de Quaranta, moglie in seconde nozze del nobile Antonio Panevino di
Tursi, dichiara di aver ricevuto i beni promessi dal giudice Marco Ferrario suo
primo marito.
Circa un quarto di secolo dopo, esattamente il 25 novembre 1597,
il notaio Giovanni Francesco de Helis di Tursi, appena dopo la morte di Tommaso
D'Oto, redige un inventario per volere della moglie Isabella Panevino, che risiede
nella propria casa in contrada "Petto di Santo Sebastiano".Tra le
numerose annotazioni dei beni, quella di "uno
loco à Santa Quaranta confine Angelo Doto".
Da tali atti ufficiali e autentici, si ricavano già alcune basilari
indicazioni: la famiglia De Quaranta, c'è e vive a Tursi, ha ascendenze
nobiliari, ed è legata a famiglie tursitane del suo livello, come i Panevino,
appunto. Nella specificazione del luogo confinante si richiamano i cognomi
Quaranta e Doto. Ancora, dopo oltre un secolo, il 23 settembre del 1707,
il notaio Leonardo Pasca di Tursi, certifica che padre Giovan Lorenzo Panevino,
cappellano della cappella di S. Caterina, di giuspatronato della famiglia
Andreassi, vende a Fortunato Schiroso un oliveto e una vigna siti "in
contrada detta "Santo Quaranta".
Successivamente, il 16 marzo 1710, lo stesso religioso Panevino, concede in enfiteusi perpetua a Pietro e Marcello
Stamato, padre e figlio, un terreno boscoso "sito in contrada dei Santi Quaranta", stesura del
notaio Leonardo Antonio de Mellis di Tursi.
Di particolare importanza il
documento notarile dell'11 febbraio 1714, redatto dal citato notaio L. Pasca: da
tale strumento emergono gli appartenenti al Capitolo dell'insigne chiesa
Collegiata della Rabatana in Tursi, e tra questi si menziona don
Giosuè Quaranta. È l'ultima volta che si verifica l'esistenza della
famiglia De Quaranta, poi la scomparsa definitiva, non sappiamo se per trasferimento
altrove oppure per estinzione, come siamo propensi a credere.
Dunque, la
famiglia a Tursi non c'è più, ma il loro nome si. Infatti, nel Settecento
troveremo ancora atti notarili che si riferiscono alla località:
il 28
settembre 1742, il notaio Filippo Nocerito di Tursi, scrive che l'arciprete don
Filippo Panevino, in qualità di "tutore
testamentario" di Domenica di Giuseppe, vende a Filippo Berceli un terreno
di tomola due con alberi di fichi sito in contrada "la Valle di
Santo Quaranta";
nel 1765, esattamente il 25 agosto, il notaio Vincenzo
Lauria di Tursi redige che il dottor
Francesco Panevino concede in enfiteusi perpetua al magnifico Francesco
Paolo Andreulli di Tursi "una vigna
vitata et arborata con oliveto" in
contrada detta "La Valle de Santi Quaranta";
il 2 febbraio 1794, lo stesso notaio V.
Lauria, dottor Gaetano Panevino,
insieme ai propri figli il dottor Filippo
Saverio Panevino ed il dottor Salvatore
Panevino, di Tursi, prendono a censo da Vincenzo Ruggi di Tursi un
capitale ...imposto su di una casa palaziata ...sita nella piazzetta della
Rabatana, ...ed anche su di una vigna con terreno coltivato "à bombace" ed
alberi di ulivo ed altri frutti sita in territorio di Tursi in contrada "Santi Quaranta"...".
Quest'ultima
forma lessicale resterà più in auge e si tramanderà, dopo un normale assestamento
terminologico: loco, contrada, valle di Santa
Quaranta, Santo Quaranta, Santi
Quaranta. Se altre zone
e località hanno (avuto) la loro derivazione dal nome dei nobili proprietari,
non si capirebbe perchè questa volta si dovrebbe fare eccezione. I maestri di
storia consigliano sempre: le spiegazioni semplici dovrebbero precedere quelle
più complesse, queste ultime da preferire a fronte della chiara inadeguatezza
delle prime.
La famiglia De Quaranta, siamo propensi a credere con
ramificazioni in Campania e Spagna, si sarebbe eclissata dal territorio tursitano
proprio nella seconda decade del XVIII secolo, cioè prima della Relazione
Gaudioso, a tal punto da essere totalmente ignorata nel censimento fiscale (noto
come Catasto Onciario) di Tursi, approvato dall'autorità regia del 1754 (in
esso si riportano, però, i dati anagrafici rilevati nel 1741, anno in cui fu
introdotto il nuovo sistema d'imposte), e
perciò non minimamente menzionata da Nigro e Bruno (che aveva intuito una simile evenienza).
Che la famiglia
avesse pure altre ramificazioni è certo, poiché nel sec. XVI, esattamente il 15
ottobre 1560 (da un atto del notaio Angelo Ciutio di Tursi, sempre nel
distretto di Lagonegro), <<il nobile Andrea de Quaranta di Montalbano
permuta con Cornelia Panevino ("pane et vino"), autorizzata dal
nobile Genovese Pollicastrello di Tursi, un proprio uliveto con due piedi di
ulivi sito in territorio di Tursi in contrada "del Rasco", ricevendo in
cambio dalla detta Cornelia la metà di un casaleno, posseduto in comune con Antonia Panevino, sua sorella, sito in
territorio di Montalbano in contrada "Santo Nicola">>.
Sul legame
spagnolo della famiglia, basti citare la curiosa contemporaneità e
contestualità di numerosi ceppi e nuclei (ne citiamo una parte appena) dai cognomi
vagamente "spagnoleschi", forse non tutti iberici di origini, ma tutti desunti
dagli atti notarili in Tursi, dalla metà del XVI secolo al 1750 circa: Alonso
de Vargas, governatore di Tursi e procuratore del principe Doria, duca di Tursi
(1606); Jacobo de Capua, vescovo di
Anglona, il 21 maggio 1501; notaio apostolico Lonardo de Narduccio di Tursi; Modestina
de Georgiis, Giovanni Francesco de Georgiis, Bona Antonia de Georgiis;
Antonischa de Basile, Marco Antonio
de Basile; notaio Giovanni Francesco de Helis; notaio Lorenzo de Heli; notaio
Lorenzo de Helis; Antonio de Heli; Domitio
de Heli; Giovanni Antonio d'Heli; Polita de Heli; Francesco d'Helia; Giulia de
Helia; Giovanni Antonio de Heli; notaio
Leonardo Antonio de Mellis; Tommaso D'Oto, Angelo D'Oto; don Filippo de
Martinis; Antonello (de) Margiotta; Angelella de Panescio; Angelo de Asprella, Pietro
Antonio de Asprella, Giovanni de Asprella, Camillo de Asprella, Domenico di
Asprella de Santo; Giovanni Domenico de Apreli; Lorenzo de Noheli, Lucrezia de
Noheli; Giovanni Tommaso di Antonello de Paulino, Giovanni Domenico Mendes
(Manda) di Napoli; Aliberto de Noya, Antonio di Noya; Domenico de Florentia, Domenico
de Florenza, Pietro Antonio de Florenza; Scipione de Florentia, Scipione
Florentia;
Florio di Pizzo; Barnaba de Pasca; Matteo di Santissima; notaio Giulio de Motta; Diego de Murgia,
Pietro di Diego de Murgia; Geronimo de Rica; Antonio de Donna Perna; Latorraca de la Santi Martini; Giovanni Paolo
Castiglione; Giovanni de Risa; Francesco de Consiliis, Antonio Silvio de
Consiliis, Giovanni Francesco de Consiliis, Fulgentio de Consiliis; notaio Giuseppe
de Salvatore, Salvatore de Salvatore; Giovanni Domenico Mendes; Diego de
Roperto; Angelo de Mancino, Maddalena de Mancino; Costanza de Matteis;
Evangelista de Galterio; Giovanni Tommaso de Paulino; Milio de Virgilio;
Giovanni de Lao;
Francesco de Leo; Giovanni Francesco de Garofalo; frate
Battista de Dammiano; Pomponio de Santissima; Emma de Aligretto, Emma de
Allegretto; Leonardo de Garofalo; Elena de Leone; Stefano de Vallentino,
Giovanni Antonio de Vallentino; Giovan Battista de Pinta, Francesco Antonio de
Pinta; Vittorio de Mattia; Pietro Antonio d'Andriuccio; Giovan Battista de
Amato; notaio Marcatonio de Pasca, Annibale de Pasca, Giovanni Francesco de
Pasca, Barnaba de Pasca; Mercurio de Igno; Angela de Santo; Paolo e Antonio e Gaspare
de Berardinello; Porzia de Mellis; Bartolomeo de Rosa, Francesco de Rosa, Perna
de Rosa, Giovanna de Rosa; Pietro de Monte; giudice Camillo de Arcuro; Leonardo
Santamaria.
A parte la suggestione di tale elenco, sarebbe ingegnoso trovare un'altra
spiegazione. A tutt'oggi, altro fatto certo, nulla si sa del luogo di devozione
in tale località. Nella cronotassi dei vescovi dei diversi autori, nessuno fa
mai cenno e non si parla di una chiesa in località Santi Quaranta con il culto
dedicato al gruppo dei martirizzati, neppure si indicano in tal senso cappelle
o donazioni o altro nel corso dei secoli.
In generale, sono due i noti racconti
precedenti assimilabili ai Santi Quaranta. Sul versante storico, è il caso di
ricordare le origini di un'antichissima famiglia salernitana attestata già dai
sec. X-XI, il cui capostipite fu un nobile Cavaliere soprannominato "dei
Quaranta". Il prode condottiero e quaranta cavalieri normanni (lo sostengono gli
storici Amato, Leone Ostiense, Summonte, Polverino, Muratori, Vertot, Ventimiglia
e Camera) reduci da Terra Santa, mentre si dirigevano in pellegrinaggio al
monte Gargano, per venerare la grotta del Santo Arcangelo, si prodigarono per
la liberazione della città di Salerno, assediata dai Saraceni che l'attaccarono
nel 1016, all'epoca del Principe Guaimaro IV.
Per gli studiosi Leone Ostiense e
Guglielmo il Pugliese, i saraceni furono cacciati da valorosi normanni. Per
tale merito il Cavaliere "dei Quaranta" ebbe una vasta proprietà fra Salerno e
Cava de' Tirreni, dove si stabilì, divenendo una delle famiglie più
prestigiose, e fondò poi la Chiesa dei SS. Quaranta Martiri. Sempre in epoca
normanna sorse il Casale Quaranta (sec. XII). Con gli Angioini, vari rami della
famiglia si trasferirono a Napoli, ma dopo alterne vicende ritornarono a Cava
de' Tirreni e prosperò successivamente anche a Salerno, Napoli e Gaeta. Permane
la disputa tra gli accademici sulla nazionalità del cavaliere capostipite del
casato, con tre ipotesi più ricorrenti: un Normanno anch'egli, o un nobile
Salernitano oppure Longobardo. Nessun dubbio, invece, sembra sussistere sul
fatto che da quel cavaliere abbia avuto origine la famiglia Quaranta.
Per quanto attiene alla storia della chiesa, dei santi
e beati, si narra dei Quaranta Martiri di Sebaste (Armenia),<<condannati
a rimanere, in pieno inverno, dentro uno stagno agghiacciato, avendo in una
vicina casa un bagno caldo che li avrebbe accolti in caso d'apostasia. Difatti,
uno del gruppo non resistette ed uscì dalla piscina. Ma gli altri invocarono
tanto il Signore che uno dei persecutori, convertito, si gettò nell'acqua
gelata reintegrando il numero. L'episodio sembra dipendere da una Passio di poca o nessuna autorità
storica (salvo forse il ricordo del genere di supplizio), come ora è ammesso
dalla critica.
Invece, dal Bonwetsch in poi, si riconosce il grande valore di
un singolare Testamento dei Sebasteni. Vi si incita a
tralasciare i caduchi valori del mondo per mirare agli eterni, e soprattutto si
stigmatizza la bramosia di possedere reliquie ("chiediamo a tutti che,
quando le nostre spoglie saranno tolte dal forno crematorio, nessuno se ne
prenda una parte per sé"). Questi santi personaggi sono militari martiri
della persecuzione di Licinio, e sembrano doversi riferire al 320, quando
l'imperatore, in odio al collega Costantino, riprese la lotta contro i
cristiani. Alludono ai Quaranta Martiri varie omilie dei Padri cappadoci, fra
cui quelle di S. Basilio e di S. Gregorio di Nissa. (Carlo Cecchelli, Enciclopedia
Treccani)>>.
I
loro nomi sono: Aezio, Eutichio, Cirione, Teofilo, Sisinnio, Smaragdo, Candido,
Aggia, Gaio, Cudione, Eraclio, Giovanni, Filottemone, Gorgonio, Cirillo,
Severiano, Teodulo, Nicallo, Flavio, Xantio, Valerio, Esichio, Domiziano,
Domno, Eliano, Leonzio detto Teoctisto, Valente, Acacio, Alessandro, Vicrazio
detto Vibiano, Prisco, Sacerdote, Ecdicio, Atanasio, Lisimaco, Claudio, Ile,
Melitone, Eutico o Aglaio ed Eunoico, il giovane servo cristiano che
evidentemente non fu risparmiato (Antonio
Borrelli, www.santiebeati.it).
Si può dunque argomentare che la nostra nuova ipotesi,
forse meno misteriosa e suggestiva, è di certo più semplice, realistica e veritiera.
Fino a prova contraria, ovviamente.
SULLA ESTINZIONE DELLA NOBILE FAMIGLIA
DE GEORGIIS (SEC. XVI)
Nel fare la ricerca sul toponimo Santi Quaranta, mi sono imbattuto in
una serie di documenti che, a una ricognizione e rilettura più unitaria, offrono un interessante contributo per
comprendere almeno le ultime vicende della famiglia
De Georgiis, una della più antiche, nobili e misteriose di Tursi. Gli
storici locali e regionali hanno discusso anche sulla estinzione della
famiglia, che Rocco Bruno ritiene sia avvenuta "verso la fine del 1600 o nella
prima metà del 1700", mentre il Nigro afferma che "la si diceva
estinta già nell'Ottocento".
Diciamo subito che sembra confermata pienamente la
sua scomparsa, suffragata dalla totale
mancanza di notizie ufficiali, anticipandola però di un secolo, già al termine
del XVI secolo. Pertanto, è sicuramente più vicina al vero l'affermazione di R.
Bruno, mentre quella di Antonio Nigro (1764-1854), primo storico tursitano, appare
comunque una stranezza (e non è l'unica), essendo un po' vaga e tardiva
cronologicamente, rispetto a quanto fosse lecito attendersi da lui, proprio
perché vivente dal secolo precedente.
Anche se nel suo basilare "Storia di
Tursi" (1989, Arti Grafiche Agesa, Moliterno, PZ, p. 308) quasi ignora la
famiglia De Georgiis, invece, nel testo "Le famiglie di Tursi dal XVI al XIX
secolo" (1989, Arti Grafiche Agesa, Moliterno, PZ, p. 73), R. Bruno afferma
qualcosa di più nella scheda relativa, in particolare (citando un dottor
Giordano, che lo avrebbe annotato nel 1741) che le notizie precedenti risalirebbero
addirittura al X secolo (nel 935), con il Vescovo di Tursi Niccola o Nicola; lo stesso autore indica poi un Pietro De Giorgiis (notaio a Tursi nel
1445) e, con un altro salto, arriva a Pietrantonio
De Giorgiis, che avrebbe composto un epitaffio ed un'elegia nel 1546 (in
realtà, non essendo l'autore, è stato confuso con il giovane destinatario dell'epitaffio,
come si capirà in appresso); infine, aggiunge il nobile Pietro De Georgiis,
"trovato in atti notarili del 1575",
e un dottore Filippo De Georgiis,
"altro componente di questa famiglia, che viveva nel 1635". Dunque, la nobilissima
famiglia De Georgiis sarebbe sostanzialmente caduta nell'oblio intorno al 1640,
seguendo le tracce biografico-genealogiche fin qui riferite.
E anche se diversi
indizi farebbero pensare alle origini dei De Georgiis, alle vicende successive
e al suo lignaggio, meglio inquadrabili in qualche ordine cavalleresco, alcune
cose si è in grado di aggiungerle, ben
oltre la data di realizzazione della cappella funeraria dei De Georgiis (con il
presepe in pietra e l'adiacente stanza degli affreschi, del 1550), nelle cripta
sepolcrale (detta "catacombe" non solo dai rabatanesi) della collegiata Santa
Maria Maggiore. Essa è attestata in due epigrafi in latino, una riportata anche
dal Nigro, nella sua citata Memoria
topografica istorica del 1851, che è opportuno integrare con la nuova e più
completa versione fornita da Antonella Miraglia e Domenico Settembrino (La
Cappella De
Georgiis nella chiesa della Rabatana di Tursi, Basilicata Regione Notizie,
Potenza, 2002, pp. 177-198).
Dalla lettura dei due testi integrati, sappiamo
della morte (per epidemia o malattia contagiosa?) ravvicinatissima di due
giovani, non si sa fratelli o cugini: (Giovanni)
Antonio De Georgiis (anche attivo domatore di cavalli), avvenuta a 23 anni
(all'alba del 14 luglio 1547), e di Pietro
Antonio De Georgiis, nato nel 1532 e morto all'età di 15 anni, 5 mesi e 21 giorni (il 2 agosto 1547). Era
vescovo mons. Berardino Alvino, che traslò la diocesi da Anglona a Tursi
(dandole dignità di città); il presule era stato nominato il 21 dicembre 1542 da
papa Paolo III che, con bolla del 26 marzo 1546, elevò la chiesa della Rabatana
allo status di Collegiata (forse per risarcirla della mancata sede episcopale
in Rabatana e del titolo di cattedrale, che passò alla chiesa della santissima Annunziata). Fu in tale
occasione, a parere di R. Bruno, che la chiesa dell'antico rione mutò la
dedica, da santa Maria dell'Icona in Santa Maria Maggiore.
Davvero singolare,
nelle pur dotte disquisizioni sulla cappella della cripta, che nessuno sia
posto il problema della eventuale rappresentazione e identificazione dei due
giovani morti. Da anni ho proposto una soluzione abbastanza verosimile. La
famiglia committente, di certo con l'avallo delle autorità ecclesiastiche
locali, coinvolse molto probabilmente la bottega d'arte scultorea di Altobello
Persio da Montescaglioso, assieme a Sannazzaro D'Alessano, e il pittore
Giovanni Todisco, per il loro lavoro nei locali adiacenti, poi terminati nel
1550. Due gli autori, due le stanze, le forme e gli stili della narrazione
artistica, per i due sfortunati rampolli, collocati uno nel presepe (il giovane
tra i tre re Magi a cavallo), propendo per (Giovanni) Antonio De Georgiis, e
uno negli affreschi (alla destra dell'ingresso a volta), come colonna simbolica
proprio a ridosso dell'altare De Georgiis (dove si ritiene possa essere stato
sepolto, mentre l'altro sarebbe stato conservato nel sarcofago, in pietra come
il materiale presepiale).
Quanto alla nostra documentazione, da un atto del notaio Lorenzo de
Helis di Tursi (nel distretto di Lagonegro), risalente al 17 marzo 1572, si
apprende dell'esistenza di un ceppo dei De Georgiis, tramite il nome delle due
figlie e del padre: "Istrumento di affrancazione di un annuo censo da parte di Modestina de Georgiis, erede
testamentaria del fu magnifico Giovanni
Francesco de Georgiis, insieme a "donno" Pietro Antonio Panevino ("pane et vino"), (sacerdote), amministratore di detta
Modestina, e con l'autorità di "donno" Claudio Tutio, procuratore del
magnifico Orazio Tutio, marito della nobile Bona Antonia de Georgiis (sorella di Modestina), a favore di "donno"
Giovan Battista Rota di Tursi.
E lo steso notaio de Helis, il 31 agosto 1587, redige
un "Inventario dei beni mobili e stabili fatto ad istanza del magnifico Giovanni Lorenzo Panevino (seniore) ("à pane et vino"),
in qualità di tutore di Francesco, Antonio Silvio e Giovanni Francesco de
Consiliis, figli ed eredi del fu Fulgentio de Consiliis di Tursi e di Modestina de Georgiis".
Il 22 febbraio 1649,
si apprende dal I° versamento del notaio Giovanni Francesco Valicente di Tursi,
del 1649, che la magnifica Virginia
Panevino dispone che siano destinate all'U. J. D. Vespasiano Andreassi,
suo marito, le terze maturate dopo il matrimonio, sul credito di ducati
cinquemila che la suddetta Virginia vanta su Camillo Cataneo, marchese di
Montescaglioso, a seguito della vendita del feudo di Craco. L'U. J. D.
Vespasiano Andreassi era originario di Oriolo ed "uxorato" in Tursi
(come risulta dal I° versamento del notaio Giovanni Francesco Valicente di
Tursi, del 1635). Sua moglie era Modestina de Consiliis di Tursi, figlia del
dottor Francesco Antonio de Geogiis de
Consiliis (risulta dal I° versamento dello stesso notaio tursitano G. F.
Valicente, dell'anno 1631).
Insomma, se ne ricava che i De Georgiis avevano
soliti e solidi legami fiduciari con i Panevino e che la dinastia sopravvisse
ancora nel XVI secolo, solo nella ramificazione femminile, con le sorelle Bona
Antonia De Giorgiis e Modestina De Giorgiis (erede testamentaria di Giovanni
Francesco de Georgiis), rispettivamente coniugate con Orazio Tutio e Fulgentio
de Consiliis di Tursi. Modestina e Fulgentio ebbero almeno tre eredi:
Francesco, Antonio Silvio e Giovanni Francesco de Consiliis. L'alto lignaggio
del cognome della moglie e la perdita in asse ereditario del ramo maschile, fu
utilizzato dal coniuge e sancito in atti notarili. Infatti, da uno degli eredi
De Conisiliis (non è chiaro chi dei tre) nacque
Francesco Antonio De Georgiis de Consiliis, genitore di Modestina de
Consiliis, poi andata in sposa (1631) al dottore in legge Vespasiano Andreassi,
originario di Oriolo e "uxorato" in Tursi, che, alla morte di lei (1635?), si
risposerà con Virginia Panevino (1649).
Quanto ai due nomi di R. Bruno, Pietro De Georgiis (1575) e il dottor Filippo
De Georgiis (1635), salvo involontarie alterazioni nella loro trascrizione,
potrebbero far pensare a una diversa motivazione di accoglimento della
richiesta della famiglia di realizzare la cappella funeraria: semplicemente fu
per devozione o munificenza verso la chiesa, non già per la triplice tragedia (della
doppia morte dei giovani e dell'estinzione della genealogia). Mi pare oltremodo
difficile sostenere una simile argomentazione, essendo quella dei De Georgiis
un unicum mai verificatosi, né prima né dopo, anche a fronte di parecchi ricchi
feudatari, di numerose famiglie altolocate e tanti nobili signori, tutti
residenti nella città di Tursi. Che alla famiglia ha poi dedicato solo
silenzio, non così la storia e chi se ne appassiona.
Salvatore Verde
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