Nell’articolo "Il mistero del tesoro incompreso e i ritrovamenti medievali", abbiamo riferito la testimonianza diretta e indiscutibilmente attendibile di Giuseppe Manfredi, 75 anni, allora giovane testimone dei fatti, che qui sintetizziamo. Nell’antico rione di San Michele, oggi in via C. Alberto, sono stati scoperti casualmente in pochi metri quadrati: un cumulo di monete antiche (“centinaia, con significative date e geometrie: rotonde, alcune con gli spigoli tagliati e altre quasi a forma di cuore, impresse tra il 1200 e il XIV secolo, tutte senza valore ci dissero”); un’anfora media (“come un contenitore per olio da 10 chili”); i resti frantumati di molti pezzi di ossa (“i più integri appartenevano presumibilmente ad un cavallo, perchè le quattro zampe erano intere, avendo dei ferri ed essendo bardate di lamine di metallo”); una spada (“intatta e lunga meno di un metro”); a poca distanza grandi lastre di pietra lisce incastrate ( “due larghe e alte circa un metro e altrettante lunghe il doppio, mentre pochi pezzi erano sparsi”). Gli scavi, com’è noto, non sono andati avanti e in quel luogo è stato costruito un edificio di cinque piani. Tursi - Si può fare un’ipotesi sul mistero del tesoro medievale incompreso, originato dai ritrovamenti del 1951-52, che alimenta la piccola leggenda tursitana “del tesoro e del cavaliere”. Tutti i reperti hanno avuto di certo il contestuale interramento, trattandosi inequivocabilmente di una tomba ben conservata. La triade spada-cavallo-guerriero e le monete avvalorano una scoperta senza precedenti nel territorio tursitano, mai verificatasi né prima e neppure dopo. I resti non sono riferibili agli originariamente nobili Manfreda, proprietari del palazzo adiacente, proprio per l’atipicità e uni(vo)cità dei reperti e perché tale famiglia compare in atti notarili solo verso la fine del XVI secolo. Nel passato, la sommità collinare sulla quale è edificata la straordinaria chiesa di San Michele Arcangelo e l’interno del luogo di culto sono stati tradizionalmente utilizzati come luogo di sepoltura. La stessa struttura ospitò un sinodo nel 1060, indetto dal pontefice Nicolò II, e vi si stipulò l’accordo del 1320 tra il Vescovo di Anglona Marco e Giacomo, archimandrita del monastero di Carbone. Il ritrovamento a pochi metri del cavaliere-guerriero rappresenta senza dubbio un primo rilevante indizio provato sugli eventi quotidiani dei secoli XII-XIV secolo, ignorandosi quasi tutto delle vicende locali nel periodo considerato. Per un’ipotesi storica sul cavaliere, rigorosa e al contempo immaginifica (verità e fantasia si intrecciano sempre in modo inestricabile, più di quanto non si creda), dunque, vanno considerate le poche certezze e i rimandi ai segni e alla simbologia emergente. Lo diciamo subito: può trattarsi di un cavaliere dell’Ordine dei Templari, i mitici monaci-guerieri. Dunque, pur con lo scivolamento del contenuto che, però, lascia aperto il dubbio sull’originaria sistemazione dell’animale fuori o dentro la tomba (né è dato sapere se vi fossero altri materiali depositati), l’avvenimento si collocherebbe nella seconda decade del ‘300, avvalorata sostanzialmente dalla datazione delle centinaia di monete (è azzardato supporre che un raro esemplare sia conservato da qualche collezionista locale?). La predisposizione sepolcrale ha richiesto del tempo (almeno per la preparazione) e di certo hanno provveduto all’inumazione persone insospettabili, amiche, fidate e fedeli (fanti, servi e impiegati di una confraternita al seguito, locali o di passaggio), se è vero che tutto è stato mantenuto in gran segreto anche a distanza di anni (addirittura secoli), forse perchè occorreva dimenticare in gran fretta. Oltre all’appartenenza, si può ipotizzare che le monete avrebbero potuto rivelare qualcosa di non desiderabile o pericoloso, se scoperto dai contemporanei (ad esempio la provenienza vicina o lontana, tanto da far risalire all’identità del cavaliere, e non si può neppure escludere che fosse del posto, tenuto in così elevata considerazione da meritare un simile trattamento onorifico, perfino e addirittura da morto). A questo punto, bisogna ricordare la lotta già in atto da tempo contro gli abitanti di Anglona, che si concluderà con la sua totale distruzione, pare operata dagli stessi tursitani. Né va dimenticata che alcuni autorevoli studiosi, tra i quali Rocco Bruno, storico locale, sostengono la teoria delle due diocesi, incidenti nello stesso territorio: quella ricordata, di Anglona, di rito latino, e l’altra di rito greco-bizantino in Tursi, con la Cattedra vescovile probabilmente allocata nella chiesa di San Michele Arcangelo (a tre navate e l’unica con il cupolone “orientaleggiante” sull’altare maggiore). Tesi solo in parte sostenibile, magari funzionale a interessi strategici di qualche “occidentale” che l’Oriente lo conosceva bene, vivendoci o comunque affrontando i lunghi e pericolosi viaggi. Non a caso il territorio tursitano e la diocesi di Anglona hanno offerto il loro contributo alla Crociata promossa dal re Guglielmo II, nel 1181, in termini “di sei cavalieri e quaranta fanti”. Devo al collega della Gazzetta Pasquale Doria, la notizia tratta da un libro della prof.ssa Bianca Capone, storica, studiosa del particolare fenomeno nel Meridione, la quale colloca una “maisone”(casa) templarica nel territorio di Tursi, in una località denominata Masone (dal secolo scorso Ponte Masone), zona individuata lungo la strada che dalla Rabatana porta alla “Croce” e quindi al Santuario di Anglona. Casuale non proprio se si pensa all’insediamento storicamente certo dei Saraceni, con incursioni successive, quindi anche in funzione di possibile controllo del territorio o di conoscenza avanzata del temibile nemico, con il quale però i Templari instaurarono dei rapporti in Palestina. Inoltre, riveliamo che: nella chiesa di San Michele Arcangelo (nel 1857 ci fu un terremoto che la distrusse a metà ed è chiusa al culto dal 1981, perché pericolante, ndr.), l’altare maggiore mostra più nitidamente la croce gigliata francese (peraltro, stranissimamente, rintracciabile anche altrove con lievi modifiche); nel dirimpettaio palazzo dei Rocco(oggi Romano) è ancora visibile un enorme giglio affrescato sulla parete interna dopo il portone, appunto; una casa religiosa denominata San Lazzaro, potrebbe essere di quel periodo (i pochi resti si osservano lunga l’attuale strada che porta al camposanto). Senza dimenticare che Tursi, sede di diocesi millenaria, è stata da sempre patria di confraternite, associazioni più o meno segrete, club esclusivi e massoneria, fino ai nostri tempi recenti. Anche la grandissima Famiglia Brancalasso, si dice arrivata da Napoli verso la fine del XV secolo (se non prima), espone nel proprio ambiguo stemma segni templarici (il teschio incrociato, le tre spade a forma di croci, una scala) o un’appartenenza intrigante al coevo Ordine di San Lazzaro (che aveva un suo braccio militare e curava i malati, come i cavalieri di San Giovanni, in ogni caso esclusivamente lebbrosi). Perché, dunque, scartare a priori l’ipotesi del ritorno di un templare (in “fuga”?). Alcuni elementi suggeriscono e legittimano l’ardire. D’altronde, per dirla con Umberto Eco nel suo “Pendolo di Foucault”: i Templari c’entrano sempre. Minischeda sui Templari L’Ordine dei Poveri soldati (poi dei Poveri Fratelli, ndr.) di Cristo, ovvero i “Fratelli del Tempio” o “Cavalieri del Tempio” (di Gerusalemme), più semplicemente “i cavalieri Templari”, fu fondato dal francese Ugo di Payens (per il ricercatore Mario Moiraghi era Ugo Pagani, italiano della Campania-Lucania) probabilmente nel 1120 (più realisticamente qualche anno prima), per difendere i pellegrini che si recavano in Terrasanta (almeno fino alla perdita definitiva del 1291), divenendo con lasciti, donazioni e finanziamenti, e grazie al loro papale status speciale, una ramificata potenza anche economica in tutta Europa. Iniziata nel 1307 la loro parabola giudiziaria, poiché perseguitati dal re di Francia Filippo IV detto Il Bello e poi abbandonati al loro destino dai vari regnanti e dagli stessi papi, l’Ordine fu soppresso nel 1312 e il loro Gran Maestro Giacomo di Molay arso vivo due anni dopo. Curiosamente, prima il papa Urbano II, che incitò alla “crociata”, e durante l’epopea templarica, con Innocenzo II e Onorio III, i pontefici del tempo visitarono la Basilicata. Poteva questo essere casuale e non aver avuto conseguenze? E’ certo che anche in Italia, parecchi Fratelli riuscirono a sottrarsi alla tragica fine, ma persiste il dubbio su presunti salvataggi di tesori e documenti segreti dell’ordine. Salvatore Verde
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