Tursi - E’ fenomeno sociologico raro l’individuazione dell’inizio di una tendenza culturale, nel caso tursitano la matura consapevolezza dell’importanza delle radici e delle tradizioni, indirizzata in una seria politica di recupero, conservazione e valorizzazione del patrimonio artistico, architettonico e storico, anche se ancora moltissimo resta da fare. Nel 1974 per “motivi di sicurezza” fu abbattuto l’ultimo torrione dell’antico castello, posto alla sommità collinare dove è situato il primo borgo della Rabatana, proprio in mezzo a una lingua di terra triangolare tra i due fiumi Agri e Sinni, e dalla quale si domina ancor oggi un panorama sconfinato, che all’orizzonte comprende il mar Jonio e il golfo di Taranto, il massiccio del Pollino e l’entroterra collinare Materano. Tursi perse così la sua test(imonianz)a monumentale originaria , ma i tursitani la ritrovarono cominciando ad interrogarsi sul proprio passato. Non è un caso che la prima pubblicazione della “Storia di Tursi” da parte dello storico locale Rocco Bruno sia avvenuta solo nel 1977 (l’arricchita seconda edizione è del 1989), se si esclude l’insuperato e archetipo testo di riferimento che risale al 1851, ad opera del medico e archeologo tursitano Antonio Nigro, dal titolo “Memoria topografica istorica sulla città di Tursi e sull’antica Pandosia di Eraclea oggi Anglona”. Ma l’intimo convincimento della straordinarietà delle “cose paesane” si diffuse nell’opinione pubblica locale dal 1982, quando il 30 e 31 ottobre si realizzò nella Cattedrale dell’Annunziata il notevolissimo convegno “La poesia di Albino Pierro” con la presenza tra gli altri di G. Contini, G.B. Bronzini, M. Dell’Aquila, E. Bonora, M. Marti, E. Giachery, G. Jovine, A. Rossi. Una quasi riconciliazione celebrativa tra il grande poeta e la cittadinanza, che però costrinse tutti a reagire adeguatamente, e principalmente gli amministratori pubblici, alle conseguenze dello scandagliamento critico della vita e soprattutto della ricca produzione poetica dialettale di Albino Felice Pierro (Tursi 1916-Roma 1995), per circa un decennio candidato al premio Nobel. Fu una sorpresa e fece scalpore sentire anche in chiave socio-antropologica oltre che critico-letteraria, da tanti illustri ospiti, riferimenti precisi ai tanti luoghi dell’ispirazione, alla cultura contadina, al patrimonio artistico e architettonico. Da allora nulla più è stato come prima. Lentamente sono sorti gruppi di appassionati e cultori della microstoria, gruppi folk e di musica popolare, fotografi e cineamatori, parecchi giovani hanno pubblicato loro poesie in dialetto e non, pittori e scultori, artigiani, tutti dediti in qualche modo, ma ciascuno per suo conto, alla riscoperta e rivalutazione dell’amato Paese. In ciò non aiutati dalle circostanze avverse, dall’inclemenza della natura e del tempo (terremoti, frane, cedimenti e crolli), e dall’incuria umana. L’enorme ex convento di San Francesco dei Minori Osservanti, uno dei primi in Basilicata, fondato ufficialmente nel 1441 (ma si può con ragionevolezza supporre anche nel secolo precedente), alcuni ritengono dal vescovo tursitano Giacomo Casciano, e abbandonato ai primi del 1990, col vincolo monumentale dal 1991, ha avuto un vistoso cedimento parziale alla fine degli anni Novanta del Novecento. Solo da un paio d’anni fa sono iniziati i minimi interventi di consolidamento generale e di recupero, oggi in avanzata fase. Il geograficamente opposto convento di San Rocco, sorto nel 1568 e poi soppresso definitivamente nel 1866, ha avuto una sorte migliore in quanto utilizzato e variamente ristrutturato come seminario, ospedale, orfanotrofio, ospizio (oggi ospita la comunità terapeutica Exodus di don Antonio Mazzi). Tra i due edifici religiosi, nel bel mezzo di vertiginosi strapiombi e burroni arenari, è situata la Rabatana, primo nucleo abitativo stabile di origini antichissime e incerte, forse addirittura pre-romaniche. Fondato il castello dai Goti nel IV secolo, gli scampati alla distruzione della colonia magno-greca di Pandosia- Anglona iniziarono a costruire intorno al fortilizio, fino all’attuale configurazione ottenuta con l’insediamento degli arabi Saraceni, dai quali si ricavò la denominazione “rabat”, borgo, appunto. Il borgo è oggi quasi completamente spopolato a seguito del provvedimento di trasferimento forzato della popolazione, sempre per motivi di sicurezza, ma finanziamenti pubblici per diversi miliardi di lire hanno già recuperato pienamente la Chiesa di Santa Maria Maggiore e completato l’infrastrutturazione di base dell’intero quartiere; inoltre, alcuni privati, come il poeta dialettale Antonio Popia e suoi figli, Paolo e Vincenzo, con l’accesso ai Patti territoriali ministeriali, hanno scommesso sulla riuscita di corposi investimenti per la realizzazione di notevoli strutture turistico-alberghiere.
Non soltanto la Rabatana, ma l’intero centro storico nel suo insieme (che arriva a ridosso della Cattedrale), ha perso tutta la sua caratteristica vitalità, con il calo demografico e il trasferimento degli abitanti nella parte nuova dell’espansione urbana, sempre in direzione sud, verso la valle del torrente Pescogrosso, anche con la chiusura degli uffici pubblici e di culto. Il vero problema, però, continua ad essere la mancanza di una adeguata politica di valorizzazione dei quartieri storici, magari incentivando il reinsediarsi delle famiglie, non importa se di immigrati, e favorendo le attività commerciali. Insomma, una realtà con luci ed ombre, ma qualcosa sembra muoversi, nella giusta direzione.
Salvatore Verde
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